Domenicale, 21 maggio 2023
Meticciato italiano
Alla fine dell’Elogio della creolità, nel 1988 lo scrittore francese Patrick Chamoiseau, insieme a Jean Bernabé e Raphaël Confiant, propose un originale neologismo, diversalità, in sostituzione della nostra parola universalità, basata, nonostante la sua vocazione semantica all’inclusione, sulla radice dell’Uno e dell’Identico e allineata ai valori occidentali ed eurocentrici. La creolità è invece il «mondo diffratto ma ricomposto», non più soltanto una questione geografica ma una condizione dell’esistenza, l’affermazione e l’accettazione dell’alterità, la rivendicazione di una «cultura negata, rinnegata, ripudiata». «Sopravvivere nella diversità» per evitare «un ritorno all’ordine totalitario del vecchio mondo, irrigidito dalla tentazione dell’Uno e del definitivo»; iscriversi in «un processo integratore della diversità del mondo», a una cultura che non saccheggi, ma scambi, e soprattutto che rispetti.
Recentemente la pandemia ci ha ricordato quanto l’Italia sia per costituzione una confederazione di regioni e di dialetti, un mosaico di culture. La nostra identità, linguistica prima che politica o civile, è un’identità multipla. Siamo un Paese fondato sulla varietà, ed è in questa origine che vanno cercate le ragioni più antiche del nostro senso di appartenenza. Per questo il rifiuto di un codice monolingue e nazionale da noi non potrà mai essere divisivo, ma sempre unificatore perché tocca l’essenza stessa della comunità.
Sin dalla sua nascita, l’esperienza della nostra letteratura è di fatto un’esperienza plurilinguista. Tutti gli uomini di teatro hanno usato il dialetto perché avevano la necessità di farsi capire nelle piazze dove si esibivano (l’elenco è lunghissimo: da Angelo Beolco il Ruzzante alla commedia dell’arte a Goldoni a Viviani a Eduardo a Dario Fo). Analoga inclinazione, per i poeti (da Cielo d’Alcamo a Boiardo, all’Aretino, a Di Giacomo, Porta, Meli, Belli, Pascarella, Trilussa, Fucini…). Qualcuno, come Teofilo Folengo, si è addirittura inventato una lingua mimetica. Né il discorso muta per i “cuntisti” (da Masuccio Salernitano a Basile, Collodi, Verga, De Roberto, Pirandello).
L’Unità politica e territoriale d’Italia, in definitiva, non era stata nient’altro che un «tremendo equivoco», come l’aveva definita Luciano Bianciardi: un equivoco da cui erano discesi tutte le storture e i mali a venire, la tragedia della questione meridionale e successivamente quella del fascismo. Esemplari e significativi, nel 1861, la decisione di Vittorio Emanuele di non cambiare il suo nome regale e di rimanere “secondo”, come il decreto di non azzerare neppure la numerazione delle legislature del Regno di Sardegna, così da ottenere il paradosso aritmetico di chiamare la prima legislatura del Regno d’Italia “ottava” e di far percepire a molti cittadini del nuovo Stato, in gran parte del Sud, la tanto sospirata Unità come un’annessione coloniale.
Nel Novecento si sono continuate a registrare altre esperienze individuali nella direzione di una letteratura anticodificata e anticodificabile, come quella di Gadda. Ma è stato soprattutto dal Dopoguerra in poi che la questione secolare della lingua e dell’identità ha acquisito inedite e più larghe accezioni, sia nella poesia che nella narrativa (Pasolini, Scotellaro, Pizzuto, Natalia Ginzburg, Mastronardi, Testori, D’Arrigo, Meneghello, Zanzotto...). Vincenzo Consolo dichiarò con grande consapevolezza: «Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…) io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia». Anche Andrea Camilleri, sin dalla strage dimenticata, nel solco di Sciascia, si era mosso sugli stessi meridiani, con non minore radicalità. Ed è del tutto conseguente che questa ribellione totale alla storia e ai suoi esiti sia stata ribadita da chi era nato alle estremità del Paese, e in particolare nelle isole.
La Sardegna aveva avuto una storia differente da quella siciliana, ma non meno decentrata. Proprio Camilleri, alla fine della sua vita, aveva scelto di collegarsi idealmente a uno scrittore sardo, Sergio Atzeni, per celebrare i cinquant’anni della casa editrice di Palermo, Sellerio, con un racconto che non fece in tempo a scrivere. A sua volta, in questo gioco di specchi che è sempre la letteratura, Atzeni sosteneva di essere stato influenzato dall’avere conosciuto, da piccolo, un grande scrittore sudamericano, che vinse poi il premio Nobel. Si trattava di Miguel Asturias, la voce degli indios e il custode delle leggende guatemalteche, di passaggio a Carbonia; a visitare le miniere sarde lo aveva accompagnato il padre di Sergio, Licio, sindacalista ed esponente del Pci sardo. Ma se l’incontro con Asturias era stato un appuntamento con il destino, quello con Patrick Chamoiseau, il “mastro-cantore epico” della vita e dei sogni del popolo creolo della Martinica, di cui Atzeni tradurrà due libri per Einaudi, fu un riconoscimento reciproco. Le analogie tra i due, per geografia lontanissimi eppure sorprendentemente affini, avevano preceduto la loro amicizia. «Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di diversità – scriverà Chamoiseau –. Egli capiva ciò che io dicevo. Lo sapeva già».
Il “diverso”, anche in Italia, era quindi sopravvissuto nelle zone più ai margini e da qui aveva ripreso a ibridarsi e a interrogare il contemporaneo. Come ha correttamente osservato Gigliola Sulis, mentre l’opera di Atzeni appare «periferica nel panorama italiano degli anni 80-90, si muove in sincrono con le coeve tendenze delle letterature postcoloniali su scala mondiale» (Hanif Kureishi, Jean-Claude Izzo e appunto Chamoiseau, a cui si potrebbero aggiungere anche António Lobo Antunes, José Saramago, J.M. Coetzee, Derek Walcott, Jamaica Kincaid). Nella nota del traduttore a Texaco, Atzeni aveva specificato: «Chamoiseau scrive facendo appello a tutte le risorse della lingua, mescola aulico e popolare, antico e contemporaneo, e nel suo francese inserisce singole parole e intere frasi creole, nonché proverbi e modi di dire nati dall’esperienza caraibica della vita e della schiavitù». È un preciso, e condiviso, programma letterario, anticolonialista e all’insegna della contaminazione, che lo stesso Atzeni aveva portato avanti a suo modo attraverso il recupero dell’oralità e della coralità, la tecnica del frammento, la mitologia e se necessario l’adozione di un altro registro linguistico. Curiosamente, le sue stesse peregrinazioni per l’Europa, dopo essersi licenziato dall’Enel e l’ingiustizia di un concorso perso per un soffio come giornalista Rai, lo avevano portato da Zurigo ad Amsterdam, a Stoccolma, ad Amburgo, Basilea, Monaco – una mappa che ricorda gli itinerari di Dino Campana e i suoi mille lavori –, fino a trovare un impiego nella città di Luxembourg in una pizzeria che si chiamava, per ironia della sorte, «Creole».
Negli anni Zero abbiamo assistito a un ulteriore innesto e declinazione, alla luce del mutato contesto storico e culturale, di questa linea della nostra letteratura che potremmo ormai definire creola o meticcia, attraverso una rinnovata moltiplicazione di voci (i casi di Giuseppe Occhiato e di Vincenzo Rabito, e Omar Di Monopoli, Domenico Dara, Valerio Valentini, Veronica Galletta, Graziano Gala, Remo Rapino). Vale forse pure per gli italiani, quello che vale per gli antillani: «La nostra storia è un intreccio di storie. Abbiamo sperimentato tutte le lingue, tutte le parlate».
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Il libro di Sergio Atzeni (1952-1995) Passavamo sulla terra leggeri (pagg. 272, € 14) è stato riedito da Sellerio, la casa editrice che lo lanciò a livello nazionale. Il volume vanta una bellissima nota di Marcello Fois e una fascetta di Fabio Stassi che lo definisce «creolo». Gli abbiamo chiesto di esplicitare meglio questo concetto nell’articolo in pagina.