Domenicale, 21 maggio 2023
I recenti romanzi di Paola Mastrocola e Sebastiano Nata raccontano vicende che aiutano a capire la storia economica antropologica d’Itali
Chissà se sia soltanto una coincidenza il fatto che i titoli dei romanzi di Paola Mastrocola e Sebastiano Nata contengono il termine memoria, ma può essere una soluzione più che mai valida l’idea di affidare alla letteratura il compito di comprendere un pezzo di storia economico-antropologica del Paese. Lungi dal rispolverare i fantasmi di una narrativa travestita da rappresentazione sociologica, i due libri narrano vicende individuali il cui valore, però, non esita a farsi chiave di lettura dei processi che hanno attraversato le vicende di una nazione.
Prendiamo a esempio il testo della Mastrocola, che è una sorta di autobiografia intinta negli anni del miracolo. Siamo nella Torino degli anni Cinquanta/Sessanta, tra le mura domestiche di una famiglia che contiene i caratteri tipici dell’Italia di metà Novecento: padre abruzzese, madre piemontese, un’esistenza di rinunzie benché non priva di quegli agi messi a loro disposizione dal boom, il formarsi di un’identità che sopravvive ai problemi dello sradicamento, la costruzione di legami familiari sottoposti alla forzatura della nostalgia e del desiderio di riscatto.
Il Paese che si intravede nelle pagine di questo libro conserva la patina di un’epoca dove ancora si avvertiva il senso di appartenenza e di esclusione, dove le inflessioni geografiche incidevano sui rapporti di lavoro e di amicizia e tuttavia trasmettevano una percezione di solidità, come se perfino i sogni dovessero incontrare la stessa materia con sui erano fabbricati gli oggetti e diventare anch’essi concreti, corporei, circondati dal grigio che tingeva la nebbia di quegli anni. La memoria del cielo non è semplicemente la vicenda di una bimba nata e cresciuta ai confini di una civiltà sradicata da un meridione contadino e trapiantata, a furia di ricordi, all’ombra dell’industrializzazione fiorita ai piedi delle Alpi. È un interrogarsi su cosa volesse dire, in quel periodo, attraversare la soglia della felicità, fermarsi all’incrocio di vita privata e abitudini collettive: il calcio, le canzoni, la spesa, la tv. Per quanto la costruzione del racconto spinga verso il romanzo di formazione (o addirittura del künstlerroman, il romanzo di una vocazione artistica), nessun lettore si sentirebbe in diritto di trascurare l’orizzonte socioeconomico in cui prolifera il legame tra la sarta piemontese, l’impiegato abruzzese e la bimba che delle memorie di entrambi è l’addizione.
In tutt’altra temperie si sviluppa il percorso del personaggio di Nata: un senior manager di una multinazionale finanziaria che ha ramificazioni ovunque e si nutre di una spregiudicata fiducia nel denaro non più vissuto come risarcimento della povertà, com’era appunto nel secondo dopoguerra, ma puro gesto di sfida, palestra in cui esercitarsi al dominio fine a sé stesso, dunque come forma di potere, archetipo di un’epoca in cui, per distinguersi, bisognava sottrarsi ai valori della solidarietà e incarnare il cattivo gioco del successo individuale. Il protagonista è figlio di un’altra Italia: non più quella umile degli inurbati che tornavano al paese per le ferie di agosto, ma quella rampante che muoveva i primi passi nel decennio dell’edonismo e del riflusso, testimone del passaggio dall’azienda alle multinazionali.
Quanto di lui c’è nel ritratto di noi oggi? Tanto, troppo: il romanzo è un’impietosa rivisitazione della parabola dei talenti. Cronologicamente siamo in un tempo che segue a ruota, raccogliendone il testimone, la storia narrata dalla Mastrocola. Questo manager vincente nel lavoro e fallimentare nella famiglia, scaltro ma abbandonato da tutti, incarna quel che è avvenuto dopo il boom e dopo il terrorismo, quando è iniziata la deriva a cui negli anni Ottanta era stata appiccicata l’etichetta della leggerezza e altro era se non un accentuato processo di minimizzazione di ogni solidarietà in nome dell’ottimizzazione che riduceva al minimo qualsiasi tentativo di conservare la nozione di tempo come valore epico.
«Nelle multinazionali il passato non esiste. C’è solo il presente» confessa a un certo punto l’io affamato di ricchezza, cinico negli affari almeno fino a quando la vita non gli recapita il conto, instillandogli, per fortuna, un barlume di saggezza. Esiste solo il presente, è vero, ed è anche questo un sintomo di discontinuità con i decenni precedenti, dove il denaro scaturiva dal lavoro e non dai cortocircuiti finanziari.
Un facile processo di assimilazione porterebbe ad accostare il protagonista all’etica malata dei personaggi di Verga: uguale è la mania di identificarsi nelle fortune accumulate, uguale è la sovrapposizione tra la massa di denaro che rimpingua il conto in banca e ciò che gli cresce dentro, nel profondo della sua carne, qualcosa di ostile alla vita e di estraneo al futuro. Nata chiama entrambe le cose con il sostantivo “malloppo” distinguendosi da Verga che invece usava il sostantivo roba («Qui c’è roba» dichiarava, toccandosi la pancia, Gesualdo Motta, il personaggio dell’omonimo romanzo, perennemente affamato di affari) e tuttavia il desiderio di autoassolversi dagli errori apparenta il manager al personaggio di un altro libro, di cui pochi conoscono l’esistenza, pur essendo uno dei primi sul tema delle speculazioni finanziarie: La corsa del topo di Raffaele Crovi, uscito nel 1970, in un’epoca in anticipo rispetto al rampantismo targato anni 80. Stabilire una gerarchia tra le tipologie di società presenti nelle pagine di Mastrocola e Nata non servirebbe a giustificare l’assunto di partenza, cioè fino a che punto la letteratura può dare spazio a storie parziali che poi finiscono per comporre il ritratto di una nazione. Forse è su questo tema che la letteratura si gioca il diritto di esistere. E ciò restituisce una delle poche certezze che ci dovrebbero tenere compagnia, aiutandoci a recuperare quella dimensione epica che abbiamo smarrito e di cui ci sentiamo orfani.