il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2023
Un’altre lezione di Pansa
“Le Brigate Rosse hanno sparato al politico X, al magistrato Y, al commissario di polizia Z. Vai sul posto e raccontaci tutto. Ricordati che devi farci vedere il sangue. Il terrore della vittima. Il panico dei testimoni. La rabbia della famiglia. La paura della gente”.
Giampaolo Pansa, “Piombo e sangue” (Rizzoli)
Prima di tutto lo sgomento stupito. Possibile che 40 anni fa, non un secolo fa, l’Italia fosse una macelleria a cielo aperto dove il sangue grondava sulle strade in una normalità quotidiana che registrava la contabilità assassina del piombo brigatista e delle stragi fasciste, con le protezioni piduiste e manovrate dallo Stato deviato? Poi, lo stupore ammirato. Possibile che in quel tempo ci fossero dei giornalisti come Giampaolo Pansa che mettevano il loro inarrivabile talento, impregnato di fatica e sudore, al servizio esclusivo dei lettori della carta stampata che, allora, affollavano le edicole (le stesse che oggi vanno scomparendo e non a caso)?
Noi che frequentavamo “L’Espresso” potremmo raccontare molto del mito di Pansa (Marco Damilano che ha curato il libro insieme ad Adele Grisendi, amatissima moglie di Giampaolo lo fa con sincero affetto e ammirazione). Nella mia memoria è rimasta una definizione che ci racconta molto del suo calvinismo professionale. Questa: io sono un volontario. E, dunque, la forza di volontà come motore della scrittura, alimentato senza pause dalla fatica (scarpinate e notti insonni) dall’ascolto, dallo studio per non fermarsi mai alla prima impressione, alla prima versione dei fatti che troppo spesso è la minestrina riscaldata che le “fonti ufficiali” cercano di propinare all’informazione seduta e accogliente. Che anni orrendi gli anni di piombo e sangue intrisi di odio: gli operai della Fiat ascoltati ai cancelli di Mirafiori che si dividono sullo sciopero da indire dopo l’assassinio del vicedirettore de “La Stampa” Carlo Casalegno, abbattuto dal fuoco brigatista (c’è chi grida: “Dieci, cento, mille Casalegno”, e Giampaolo che con disgusto prende nota sul taccuino). E poi tra i killer del commissario Calabresi ecco “la borghesia radicale e progressista che nei confronti della contestazione giovanile si comporta come una vecchia madama, una miseranda carampana, che vada pazza per un amante ventenne”. Finché si arriva alle pagine caustiche e impietose contro Eugenio Scalfari (di cui sarà vicedirettore a “Repubblica”) uno dei firmatari dell’odioso appello contro Calabresi: “La sinistra dei colletti bianchi, degli intellettuali, dei professori universitari, del giornalismo chic, delle eccellenze politiche e culturali che mise nel mirino quel giovane commissario”. Ma, soprattutto, la polemica che lo divise da Giorgio Bocca (i due si rispettavano ma non si amavano), altra firma eccellente, convinto che i covi brigatisti fossero una invenzione della polizia e della magistratura. “Oggi – scrive Pansa nell’appunto del 2018 che apre il libro – un falso di quelle proporzioni non sarebbe più possibile, nessun giornalista, per grande che sia, riuscirebbe a imporre una fake news di queste proporzioni, una bufala tanto gigantesca”. Rileggere oggi Pansa è un’immersione nelle pagine più oscure del nostro album di famiglia: piazza Fontana, Pino Rauti e Ordine Nuovo, l’ombra di Moro, il piombo su Walter Tobagi, le adunate del Movimento studentesco con i cruenti scontri di piazza del sabato pomeriggio. Quella di Pansa è una lezione per il presente e il futuro contro l’imperante conformismo. Tesa, caschi il mondo, ad accertare, a verificare, a scrivere e riscrivere l’oggettiva verità dei fatti. Che poi dovrebbe essere l’unico fine, ossessivo, tenace, appassionato di questo nostro mestiere