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 2023  maggio 21 Domenica calendario

I due mondi paralleli dell’ordine mondiale


I due summit che si sono svolti in questi ultimi giorni, quello del G7 a Hiroshima e quello fra la Cina e le repubbliche asiatiche a Xi’an, sembrano appartenere a due mondi paralleli. Ma a quanto si vede solo uno ha apportato significativi ritocchi alla mappa geopolitica mondiale, ed è quello indetto tre giorni fa da Xi Jinping nella cittadina a sudovest di Pechino, sede del celebratissimo esercito di terracotta e punto di partenza dell’antico tragitto della Via della Seta. Qui il presidente cinese ha ribadito l’alleanza con i leader di Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan, con i quali attuare – così recita il memorandum d’intenti – «la piena liberazione delle potenzialità delle relazioni nei settori del commercio, economia, infrastrutture e cooperazione», mantenendo rigorosamente – dice l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) di cui fanno parte – «la tolleranza zero nei confronti di terrorismo, separatismo ed estremismo, offrendosi vicendevolmente sovranità, indipendenza, sicurezza e integrità territoriale».
Al di là della forma, dietro questo accordo c’è molta sostanza. Economica, per cominciare: 70 miliardi di dollari di interscambio fa Pechino e i cinque, 40 miliardi di investimenti annui per dare corpo alla Nuova Via della Seta, come l’oleodotto di 2.200 chilometri che si stende dal Kazakistan al Xinjiang. Ma soprattutto c’è sostanza politica: Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan sono ex repubbliche sovietiche. Nessuna delle cinque ha mai approvato l’invasione dell’Ucraina, pur non aderendo alle sanzioni occidentali contro Mosca ma per contro fanno parte del progetto cinese della Belt and Road Initiative (La Via della Seta). Per questo la scelta di Xi’an da parte di Xi Jinping ha un valore più che simbolico.
Nella foto di rito del summit tuttavia mancava Vladimir Putin, membro fondatore dello Sco. Un’assenza più che significativa, che non fa che confermare le vere intenzioni di Pechino: avvolgere con il proprio soft power i cinque “stan” assecondandoli nella graduale presa di distanza da Mosca già iniziata l’anno scorso all’inizio dell’«operazione militare speciale».
Mutuando una procedura molto cara ai cinesi, potremmo chiamarlo “ex-soviet land grabbing”, ovvero l’accaparramento – in senso geopolitico – di territori un tempo satelliti del Cremlino. «Si tratta soltanto di un riequilibrio regionale», spiegano minimizzando a Pechino, ma di fatto non è che il risultato dell’isolamento maturato con l’invasione dell’Ucraina e la pioggia di sanzioni piovute sulla Russia di Putin. La leadership ora passa ai cinesi. I quali, senza troppo dirlo, hanno sempre mal digerito l’espansione asiatica dell’impero zarista che l’Unione Sovietica aveva puntualmente mantenuto: quegli Stati, dicono, in fondo sono più orientali che slavi, più cinesi e mongoli (pensiamo solo all’Orda d’Oro) che russi. La Russia stessa ci ha messo del suo: troppe volte il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ha parlato di «ricostruire lo spazio sovietico» (l’analogia con il Lebensraum, lo «spazio vitale» nazista, è sciaguratamente inevitabile), riattivando nei leader asiatici il timore di una riappropriazione con la forza della sovranità guadagnata con la dissoluzione dell’Urss più di trent’anni fa. La Cina, in questo, offre amorevole e interessata protezione, pronta a grandi investimenti e ad assicurare una cintura sanitaria per evitare nelle ex repubbliche asiatiche il contagio dei taleban ritornati padroni dell’Afghanistan dopo la disastrosa uscita di scena americana. Sembra contare assai poco in questo frangente quella «partnership senza limiti» con Pechino di cui si fa gran sfoggio a Mosca: la Cina è il socio forte, in tutti i sensi. Per Putin, solo una partecipazione di minoranza.
Quanto al G7 di Hiroshima, Cina e nuovi partner lo hanno sostanzialmente ignorato. «Un supermarket di armi completamente fuori dalla realtà», ha detto più d’uno. Chissà perché.