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 2023  maggio 21 Domenica calendario

Intervista a Nanni Moretti

Questa è la storia di un inseguimento: dei pensieri, dei ricordi, delle idee di Nanni Moretti su quel che sta accadendo a tutti noi; su quel che avviene nel Paese, con il governo più a destra di sempre nella storia repubblicana (spoiler: si resta e si lotta per quello in cui si crede); su quel che succede nel dibattito sulla guerra, dove l’antiamericanismo dà vita a follie come il filoputinismo e noi vorremmo fare come Giovanni nel Sol dell’Avvenire, quando strappa la foto perché «io Stalin che era un dittatore nel mio film non lo voglio vedere». Tra pochi giorni Moretti sarà a Cannes, che è luogo di elezione del suo cinema. Lì è stato premiato con la Palma d’oro per La stanza del figlio, che era insieme bellezza e dolore, disperazione e conforto. Lì torna con l’aria di chi sa di essere capito. Questa conversazione con La Stampa inizia dalla Francia e arriva alle canzoni. In mezzo, ci sono Nanni ragazzino, il suo preside al liceo, la pallanuoto, la «preveggenza» ma, sopra a tutto, il potere salvifico del cinema.
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Come mai questa connessione sentimentale con la Francia?
«Un po’ è per caso, visto che i miei film sono pronti in primavera e li propongo a Cannes. Ma soprattutto: mi fa piacere che in Francia il cinema sia preso sul serio, sia come fatto artistico che industriale. Se lei mi dice cinema, io non penso agli Stati Uniti, penso alla Francia, penso alle sue tante sale, alle riviste di cinema (che qualcuno legge!), alle associazioni di categoria – produttori, distributori, esercenti – che in quel Paese contano davvero. I miei primi film a essere distribuiti in Francia (Bianca, La messa è finita) sono arrivati lì quando si era appena esaurita la stagione d’oro della commedia italiana, in Francia amatissima. E allora per un po’ di tempo i miei film hanno coperto un vuoto che si era creato, il pubblico li andava a vedere, a Cannes erano premiati. Finché dura... Mi viene in mente mio padre, professore di epigrafia greca, che quando al liceo io pur non sapendo niente di latino e greco venivo promosso mi diceva: “Finché dura...”. Non è durato: in prima liceo mi hanno prima rimandato in quattro materie e poi a settembre mi hanno bocciato».
L’Italia a cena parla del suo film. Si divide tra «capolavoro» e «le merendine della mamma non torneranno più». Prevale il capolavoro. Ha fatto ridere ed emozionato tanti, non solo chi l’ha sempre seguita. Se lo aspettava?
«Avevo fatto un paio di proiezioni in una minuscola saletta con qualcuno della troupe e persone che con il film non c’entravano niente. Alla fine tutti avevano gli occhi rossi. Quando mettendoti a nudo racconti di te, quando parti da te e riesci ad arrivare agli altri è un miracolo, una fortuna di cui hai poca consapevolezza».

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Adesso è più consapevole?
«Quando ero giovane avevo una reazione indispettita quando mi si diceva che con i miei film avevo raccontato una generazione, mi sembrava un’interpretazione troppo sociologica e poco cinematografica. Ora ho cambiato idea: se davvero è successo anche questo è per me un onore e una fortuna. Ho fatto un po’ di presentazioni in giro per l’Italia e mi ha toccato il calore e l’accoglienza affettuosa del pubblico».
Cosa ha smosso secondo lei?
«Forse è anche un fatto di credibilità: le persone percepiscono che faccio un film solo quando sento l’urgenza e la necessità di raccontare quella determinata storia con quel determinato stile».
Quanto c’è di lei nel volere riscrivere il finale della storia di Giovanni? Nel rifiuto della depressione, del cappio, esorcizzato attraverso l’arte? Nel dire: la storia è storta, ma io col cinema la posso raddrizzare?
«È proprio quello che mi è successo all’inizio di tutto, quando, finita la scuola, non sapevo cosa fare e mi sono aggrappato al cinema (anzi al desiderio, al miraggio di fare cinema, cominciando a fare dei filmini con la cinepresa Super8). A pallanuoto avevo esordito in serie A a quindici anni, ero il regista della nazionale giovanile. Avevo cominciato a fare un po’ di politica a scuola (non si riusciva a comunicare con gli studenti, l’unica comunicazione era con i rivali degli altri gruppi extraparlamentari di sinistra). E poi, in sequenza, abbandonai la pallanuoto, poi abbandonai la politica, poi all’ultimo anno di liceo mi ritirai da scuola: non volevo più studiare, non volevo più fare niente».
Cosa è successo dopo?
«Il preside mi disse: “Moretti, esca da questo guscio aggroppato in cui sta consumando la sua giovinezza!”. Dopo qualche mese, nella stessa scuola da cui mi ero ritirato, diedi l’esame di maturità da privatista. Non sapevo cosa fare della mia vita. Come dicevo prima, mi aggrappai alla speranza di fare del cinema: istintivamente e confusamente sentivo che quello era il mezzo espressivo giusto per raccontare agli altri e a me stesso quello che avevo urgenza di buttar fuori e comunicare. Ma era ancora tutto campato in aria: i miei genitori erano insegnanti e non c’entravano niente con il cinema, il teatro, lo spettacolo, il giornalismo».
Tornando al cinema e al suo rapporto con la realtà. Ci sono dei registi che raccontano con compiacimento una realtà orrenda. Io questa volta ho preferito immaginare e sognare una realtà migliore. Uno dei passaggi del Sol dell’Avvenire che più ha fatto discutere, e tanto ridere, è quello in cui ferma la scena finale del film violento di un regista che sembra un epigono di Tarantino. “Questa scena fa male al cinema”, dice Giovanni, che mette in campo la morale mentre la moglie dice: è solo un film. Questo scrupolo etico le appartiene?
«Certo che mi appartiene. Mi sembra che ci sia un folto gruppo di cineasti prigionieri di se stessi e della loro inconsapevolezza. Un giovane regista mi ha detto: “Il tuo film è stato per me un richiamo importante a quello che uno pensa e spera di poter fare con il cinema”. Mi piace quando, da spettatore, un film mi dà energia e carica per il mio lavoro».
Ha detto che le piattaforme sono per le serie, non per i film. C’è almeno una serie che ha visto e le è piaciuta?
«Il metodo Kominski. Poi Broadchurch, Fleabag, SanPa, Succession (anche se non ho ancora visto l’ultima stagione). Esterno notte, visto al cinema. E mettiamoci anche The Crown, ma sì!».
È come se ci fossero tante fiammate, sulle piattaforme, ma niente che duri, rimanga, si sedimenti. È cambiato il nostro modo di fruire l’arte? La consumiamo più voracemente di un tempo? Siamo spettatori disattenti?
«Se vediamo un film a casa è molto minore l’attenzione, l’investimento emotivo, la tensione, la disponibilità a farci sorprendere. Ci sono bei film d’autore che se vediamo al buio in un cinema, con le immagini sullo schermo tanto più grandi di noi, ci sorprendono, ci affascinano, ne siamo gratificati. A casa, vedendo lo stesso film, dopo cinque minuti spegniamo spazientiti».
Al contrario lei, proprio in tempi di film sul divano e contenuti sui telefonini, ha riscoperto il teatro. L’incanto del palcoscenico, il tempo sospeso.
«Non so perché – o forse sì: è successo dopo la pandemia – negli ultimi due anni sono andato molto spesso a teatro, come non mi era mai capitato. Ho letto tutti i testi teatrali di Natalia Ginzburg e ne ho scelti due da mettere in scena. Sono stato conquistato dalla sua lingua, così moderna, asciutta, essenziale, mai soddisfatta di sé, mai autocompiaciuta. E poi a me piace molto lavorare con gli attori, sulla recitazione. E oggi ho più empatia per loro, li sento più vicini. Quand’ero ragazzo li consideravo solo pedine diligenti di un giocattolo orchestrato da me. Anni fa mi proposero una regia d’opera, Così fan tutte, ma io sono di una ignoranza clamorosa e quindi dissi di no».
Ha detto che in Italia ci sono bravi registi, bravi attori, ma non un sistema che li sostiene.
«C’è bisogno di leggi che aiutino il cinema in sala. Un film non può uscire al cinema e dopo pochi giorni essere disponibile su una piattaforma. In Italia ci vuole una cura, un’attenzione diversa per il cinema. Ci dovrebbero essere belle trasmissioni televisive sul cinema e poi ci vorrebbe un atteggiamento diverso da parte di registi, produttori, sceneggiatori che si stanno progressivamente consegnando con docilità alle piattaforme».
E invece?
«Dovrebbero ricominciare a investire emotivamente, economicamente, psicologicamente sul cinema in sala. So che non è semplice, ma bisogna continuare a provarci».
La scena dei leoni nel ghetto, la vedremo mai?
«Non credo. Era una deviazione dal racconto. Al montaggio lavoro senza autoindulgenza, quindi può succedere che vengano sacrificate scene che sono costate soldi, energia, tempo».
Il Sol dell’avvenire sembrano più film in uno. Lo erano?
«Anni fa con le sceneggiatrici abbiamo lavorato a un film interamente ambientato nel ’56. A un certo punto non siamo più riusciti ad andare avanti, ci siamo bloccati, abbiamo lasciato perdere e abbiamo scritto Tre piani. Dopo quel film abbiamo ripreso in mano il vecchio progetto con il mio desiderio di farne anche una commedia. E raccontare anche il carattere, le insofferenze, la vita del regista di quel film sul ’56. E davvero in questi anni ho pensato al contenitore di Il nuotatore di Cheever, che ti dà la possibilità di essere riempito con tanti frammenti, storie e personaggi diversi. E ho anche pensato – e chissà, potrei farlo in futuro – a una storia lunga molti decenni nella vita di una coppia. E nella vita di un Paese».
Sembrava quasi di vederlo, il nucleo di quel film, con i due ragazzi che guardano La dolce vita e si innamorano. Mentre girava si rendeva conto della similitudine tra l’invasione russa dell’Ucraina e i carri armati a Budapest?
«La sceneggiatura l’abbiamo finita nell’estate del 2021. Tutto mi aspettavo tranne che quel drammatico e lontano episodio tornasse improvvisamente e imprevedibilmente d’attualità».
La rigidità del Partito Comunista di allora, l’incapacità di formulare un giudizio oggettivo su quel che stava accadendo in Ungheria, somiglia alla difficoltà di alcuni intellettuali, oggi, di condannare senza se e senza ma la guerra di aggressione di Putin?
«Mi ha sempre stupito che fino a novembre dell’ ‘89 (crollo del muro di Berlino e inizio della fine del PCI) rimanesse incredibilmente radicato in tanti a sinistra il legame con l’URSS e i Paesi del blocco sovietico. Credo invece che nel rifiuto di oggi di schierarsi totalmente dalla parte dell’Ucraina aggredita ci siano altri motivi, per esempio l’antiamericanismo. Ma oggi, nel 2023, come ci si può tranquillamente dichiarare filoputiniani? Mi sembra una cosa incredibile, da mattarelli totali».
In Habemus papam un Papa si dimetteva. Non era mai accaduto, poi è successo davvero. Qualcuno si preoccupa mai delle sue arti divinatorie?
«Con i miei film non ho mai inseguito l’attualità. Mi è invece capitato spesso di precederla. Un po’ di fortuna, un po’ di attenzione».
Nel film c’è un tenerissimo rapporto padre-figlia. In generale, c’è un sentimento di tenerezza nei confronti dei più giovani che non è esattamente lo spirito del tempo. Da cosa nasce?
«Negli ultimi tempi mi è capitato di avere molti giovani nelle mie troupe e questo mi dà una freschezza e un’energia nuova. Per quanto riguarda il rapporto con mia figlia, alle volte faccio delle scelte espressive proprio per spiazzare lo spettatore, per non offrirgli quello che si aspetta. In questo caso ci si aspetta un padre giudicante e rimproverante nei riguardi della figlia che sta con un uomo molto più grande di lei. E poi non vedo perché il mio personaggio, molto attento – quasi devoto – al suo lavoro, in pubblico, non debba essere nel privato affettuoso con la figlia».
Silvio Orlando dice che si capisce come sta dai suoi film. Si può dire che questo sia un buon momento, nonostante il Paese sia in mano al governo più di destra che potessimo immaginare?
«Per me è sempre un buon momento quando lavoro e mi piace ogni singola fase della lavorazione di un film. Non capisco quei registi che per esempio non vanno all’incisione delle musiche o al missaggio perché “sono cose tecniche di cui si devono occupare i tecnici”. La destra al potere fa la destra. Sono sicuro che la sinistra tornerà a fare la sinistra e le farà bene qualche anno di opposizione».
Michele Serra ha detto che se la sinistra non si rifugia nella lagna e nel piagnisteo, ha nuovi spazi per fare bene. Cito: “C’è da lavorare e ci sono i posti dove si può farlo in piena autonomia. Io scrivo, oggi, con la stessa identica serenità di ieri e dell’altro ieri”. Ha ragione?
«Ma certo. Io non ho mai detto o pensato “se vince Tizio vado a vivere all’estero”. Ma perché mai? Qui viviamo e qui ci dobbiamo battere per i principi in cui crediamo. Non ho nemmeno mai usato la parola regime, anche quando, anni fa, era politicamente e mediaticamente un’espressione che rendeva l’idea della realtà. Credo di aver pensato tra me e me alla parola “regime” solo durante gli ossessionanti Mondiali di calcio in Italia nel ’90».
In questo film è come se lasciasse la musica libera di esplodere, con scene che sembrano pezzi di musical. Come se anche le canzoni avessero la capacità di raddrizzare quel che è storto: una conversazione in macchina che si sta facendo triste, una storia d’amore che rischia di finire. Se le chiedo qual è la canzone più importante nella sua vita, riesce a sceglierla?
«Le canzoni nei miei film, il loro ruolo all’interno delle scene... Quarant’anni fa ero bravo a teorizzare sulle mie scelte espressive, oggi molto meno. Più passa il tempo, più amo il mio lavoro e meno so spiegarlo, sviscerarlo, interpretarlo, razionalizzarlo. Scegliere una canzone è impossibile. Gliene dovrei dire almeno cento».