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 2023  maggio 21 Domenica calendario

Viaggio nel cuore di Seul

Ci è venuto pure il sindaco del quartiere di Gangnam, la Beverly Hills di Seul culla di quel fenomeno mondiale che va sotto il nome di K-Pop, qui al centro commerciale Coex in una assolata mattina di inizio maggio a inaugurare personalmente la nuova KTown Academy. Una “palestra” dove giovani aspiranti star e artisti già sotto contratto delle maggiori etichette musicali del Paese potranno allenarsi. Sale per lezioni di canto, di ballo e per prepararsi alle audizioni, un negozio per i fan dove acquistare i gadget dei propri beniamini, mostre degli idoli del momento, tutto questo nei tre piani nuovi di zecca in questa che dovrà diventare, come ci spiega Go Hyojoung, la direttrice, «il centro della K-Culture».
«Chi arriva qui ha tra i 10 e i 20 anni, il 90% sono ragazze», racconta Yoo Hyejin, una delle vocal stylist della scuola. «E facciamo anche audizioni per stranieri: la maggior parte vengono dalla Cina, dall’Indonesia, dalla Grecia». Si perché tutto il mondo ormai è stato invaso – pacificamente – dallahallyu,l’onda coreana: partita vent’anni fa, ha ormai raggiunto ogni angolo del pianeta. Il K-Pop è soltanto una parte di questo fenomeno: non nato per caso, ma frutto di una pianificazione politica e di grandi investimenti.
Musica, film, serie tv, tecnologia, moda, cucina. La Corea del Sud è riuscita a diventare in fretta una potenza culturale oltre che economica. E gironzolando per Seul quest’onda ti arriva dritta in faccia. «Perché tutto quello che produciamo diventa un fenomeno globale? Penso che abbia a che fare con il carattere di noi coreani: vogliamo fare tutto in fretta, ma farlo bene. Abbiamo trovato una formula e la replichiamo. Siamo dovuti crescere velocemente dopo la guerra e questo lo vediamo anche nel campo dell’arte in generale», spiega nella sua tuta di velluto arancione Yun Haneul, che qui alla K Academy fa il coreografo.
Quando i coreani hanno successo, sono molto bravi a replicarlo. Studi come l’Academy vista a Gangnam ce ne sono in tutta Seul dove migliaia di adolescenti si allenano per diventare i prossimi Bts o le prossime Blackpinko la prossima grande star del K-drama. Da varie parti del mondo si cerca di arrivare qui per sfondare, fare il grande salto: un po’ come avveniva con Hollywood nel passato.
Che Seul stia diventando “il posto dove stare” in questo momento te ne accorgi già quando arrivi all’aeroporto di Incheon: la fila al controllo passaporti per gli stranieri è chilometrica. Le bancarelle col cibo di strada sono affollatissime, grazie anche a Netflix che ha fatto diventare famosi alcuni di questi venditori ambulanti finiti in qualche scena di qualche serie tv. Qui ovunque anche di notte sembra giorno. Turisti prendono d’assalto i negozi che noleggiano glihanbok, gli abiti tradizionali, per non pagare l’ingresso a palazzo reale. Non un grandissimo affare: il vestito per la giornata costa 30mila won (20 euro), l’ingresso al Gyeongbokgung appena 3mila. Lungo Gwanghwamun, il cuore della vecchia Seul, davanti alla statua di Sejon, il sovrano che inventò l’alfabeto coreano, una lunga fila di stand celebra tutto quello che è K: K-Music, K-Fashion, K-Food, K-Drama. Per attirare turisti. L’Organizzazione del Turismo della Corea ha un dipartimento dedicato esclusivamente alla hallyu per invogliare i visitatori internazionali a venire qui. «Stiamo sviluppando prodotti turistici per gli stranieri in concomitanza con vari concerti K-Pop», ci spiega Lee Dong-wook, responsabile del team. «Sfruttando “l’onda coreana” contiamo di attirare quest’anno più di un milione di visitatori».
Nel quartiere hipster di Euljiro, in quello che una volta era il più grande mercato all’aperto dell’elettronica, Sewoon, dove qualunque cosa uno cercasse la poteva trovare – comprese le videocassette porno che fino agli anni ’90 i giovani studenti venivano qui a comprare – ora è un susseguirsi di start up, librerie indipendenti, café moderni ma dall’aria un po’ bohémien, concerti sui tetti, speakeasy nascosti. A Inkseon spopolano le stazioni per i selfie, nuovo sport preferito dalle ragazze (e qualche ragazzo) coreane. Entri, paghi e nelle cabine per scattarsi le foto ci trovi parrucche, occhiali, trucchi, vestiti. Tutto automatico, alla cassa non c’è nessuno.
A Myeong-dong, uno dei quartieri dello shopping, c’è la mecca della cosmetica: decine di negozi che propongono creme e maschere di bellezza, uno accanto all’altro, mischiati alla bancarelle di street food e negozi di grandi firme. A Namdaemun, il gigantesco mercato, negozianti vendono bambolotti gonfiabili dei Bts. Nella zona di Insadong le gallerie d’arte nascono come funghi. Anche quattro giovani monache buddiste hanno aperto la loro qui, si chiama Boda. «L’arte per noi è una terapia», dice la titolare.
«Ormai Seul sta diventando il nuovo hub artistico di tutta l’Asia», ci racconta Cho, una giovane gallerista. «Sta prendendo il posto che una volta era di Hong Kong». Al Ddp, l’enorme “astronave” realizzata dieci anni fa da Zaha Hadid ora una personale di David Hockney sulla pop art britannica. Centinaia di ragazzi affollano l’Mmca (il Museo nazionale di arte moderna e contemporanea) per una retrospettiva su Peter Weibel, artista e teorico della media art e delle nuove avanguardie, da poco scomparso. Al Leeum, nel quartiere un po’ posh di Hannam è arrivata anche la mostra di Maurizio Cattelan. Il Centre Pompidou ha appena annunciato un accordo con la Hanwha Culture Foundation, il braccio filantropico del conglomerato sudcoreano Hanwha, che pagherà 20 milioni di euro per 4 anni di diritti di licenza sul marchio e le opere del museo francese.
Su Seul hanno messo gli occhi anche le grandi maison della moda. A marzo si è conclusa la Seoul Fashion Week: 5 giorni di sfilate di 30 marchi coreani per attirare compratori stranieri. In un gelido sabato sera di fine aprile Louis Vuitton ha trasformato il ponte Jamsugyo sul fiume Han che taglia in due la città in un’enorme passerella: prima sfilata di abbigliamento femminile nel Paese. Direttore creativo della serata, Hwang Dong-hyuk, il regista di Squid Game. Qui il 16 maggio è arrivata anche Gucci, per una sfilata a palazzo reale. Tra giochi di luci, ospiti internazionali e k-pop star locali. La sfilata era prevista lo scorso ottobre, ma la tragedia di Itaewon – 156 ragazze e ragazzi rimasti uccisi nella calca la notte di Halloween – ha fatto posticipare l’evento.
Itaewon, che dopo quella notte maledetta sta provando a rialzarsi per riprendersi lo scettro di quartiere della movida notturna. Dj suonano sui tetti di locali come il Nyapi. Per gli amanti della techno non troppo distante si passa la serata al Ring. Più popolare la zona universitaria di Hongdae, dove tra accecanti luci al neon si resta a mangiare pollo fritto e bere birra (il Chi-maek) fino alle ore piccole dopo aver ballato in club che non hanno nulla da invidiare a New York o a Londra. Dall’hip hop all’elettronica ce n’è per tutti i gusti: tra i più gettonati il Noise Basement, con code interminabili per entrare.
La hallyu, un’onda, un soft – e pure hard – power che dalla musica al cinema, dal cibo ai cosmetici fino alla moda, ha travolto il mondo. Gli albori di questo fenomeno diventato globale si possono rintracciare nell’estate 2012 quando un cantante trentenne, Park Jae-Sang, nome d’arte Psy, carica su YouTube quel Gangnam Style a lungo tormentone mondiale: qualche mese più tardi è il primo video a raggiungere la cifra record di un miliardo di visualizzazioni. Poi sono arrivati i Bts, i re del k-pop che ormai sono gli ambasciatori mondiali di questa hallyu, testimonial globali di marchi di lusso, che incontrano Joe Biden alla Casa Bianca e che nel mondo contano 90 milioni di fan. Le Blackpink, la loro versione femminile. I film premiati con la statuetta dell’Oscar come Parasite (vero acceleratore di questa onda), le serie tv come l’ultimo fenomeno planetario di Squid Game (la più vista su Netflix, in ben 94 Paesi), oppure Stranger, Pachinko. Un vero “fattore K”. Anche le parole sono diventate parte delle vite di molti in Occidente: l’Oxford Dictionary l’anno scorso ha inserito 26 lemmi coreani nel suo vocabolario.
Un Paese che fino a settant’anni fa era decimato dalla guerra e che è riuscito a diventare motore della cultura globale. Per decenni la fama del Paese è stata definita dalle automobili e dai telefoni cellulari di aziende come Hyundai e LG, mentre i film, i programmi televisivi e la musica erano per lo più consumati da un pubblico regionale, circoscritto all’Asia. Una strategia ben pianificata, con lo Stato in prima linea a finanziarla e sostenerla. Un soft power sviluppato in ambito culturale che ha posto questo piccolo Paese, poco più di un terzo dell’Italia, al centro dell’Asia e del mondo.
Per quattro decenni i sudcoreani hanno vissuto sotto regimi militari. Il ritorno a governi democratici ha significato una liberazione artistica. Fino agli anni Novanta la produzione culturale sudcoreana è stata piuttosto timida, all’ombra del vicino Giappone. È in quegli anni che acquista centralità nelle politiche del governo, per rilanciarne l’economia colpita dalla crisi finanziaria asiatica del 1997. Era necessario un massiccio esercizio di re-branding della nazione. L’anno successivo Seul stanzia 148,5 milioni di dollari per la nuova “Legge fondamentale per la promozione dell’industria culturale”, che descrive la promozione del settore come una “responsabilità dello Stato”. Banche d’investimento e conglomerati privati, i potentissimi
chaebol,
ci mettono i soldi. Registi e produttori studiano Hollywood per anni: sviluppano un fiuto acuto per ciò che la gente vuole guardare e sentire, che spesso ha a che fare con il cambiamento sociale: la maggior partedei blockbuster nazionali ha una trama basata su temi che parlano alle persone comuni, la disuguaglianza di reddito, la disperazione e il conflitto di classe che ha generato. E una volta che i servizi di streaming hanno abbattuto le barriere geografiche la Corea del Sud si è trasformata da consumatore di cultura occidentale in un gigante dell’intrattenimento da esportare. Che ha affascinato il mondo. Netflix ha da poco annunciato un investimento di 2,5 miliardi di dollari in contenuti sudcoreani nei prossimi quattro anni, sottolineando che le storie create nel Paese «sono ora al centro dello Zeitgeist culturale globale». Qualche anno fa è stato il ministero della Cultura a lanciare una nuova “Divisione” per promuovere i contenuti della Hallyu. Uno sforzo di molti governi per promuovere un’immagine positiva della Corea sulla scena internazionale. Missione compiuta. C’è una maggiore richiesta globale di prodotti gastronomici e alimentari locali. Anche l’industria sudcoreana del make-up è fiorente: i volti del k-pop e delle serie televisive stanno cambiando lo standard internazionale di bellezza. Lo scorso anno il valore delle esportazioni di contenuti culturali ha raggiunto quasi i 12 miliardi di dollari (+16% rispetto all’anno prima).
La riscoperta del silenzio
Se la città gira a mille all’ora, in una società, quella sudcoreana, iper-competitiva, bisognerà pur trovare allora uno spazio per sé stessi. Per fermarsi a riflettere. Per fuggire, anche se soltanto per poco, dallo stress. Fissando le nuvole e gli alberi: in completo silenzio. Alcuni giovani questo spazio lo hanno trovato in una stradina secondaria nella zona di Seoul Forest, uno dei grandi parchi urbani della capitale. Si chiama Green Lab, minuscola tea house con posti a sedere limitatissimi. Le regole di questa oasi ce le spiega Hyo, una delle ragazze che la gestisce. «Vietato parlare. Vietato fare foto. Vietato spostare le sedie. Nella nostra sala possono entrare soltanto quattro persone alla volta, abbiamo tre fasce orarie durante il giorno. Ti prenoti, vieni qui, e per un’ora e mezza esci dal caos che c’è lì fuori. Abbiamo aperto tre anni fa, quando è scoppiato il Covid. La maggior parte dei ragazzi che viene qui ha tra i 20 e i 30 anni. Quando arrivano si vede che sono stanchi, esausti. Forse noi sudcoreani non sappiamo più come rilassarci. Gli spazi qui a Seul sono così densi, c’è sempre troppa gente dappertutto. Abbiamo voluto creare questo luogo immerso nella natura, anche se in realtà siamo in centro città», racconta. Diciannovemila won a testa (13 euro): tanto costa sedersi qui. Con la loro tazza di tè, i clienti possono leggere, scrivere poesie, meditare o fissare gli alberi e le nuvole. Al termine della loro ora e mezza di completo silenzio qui dentro, incontriamo Suzy e Dongju, fidanzati trentenni. Lei lavora in una stazione radio, parla con un filo di voce e sorride, lui fa l’ingegnere in una azienda di automobili. «Abbiamo scoperto questo posto su Instagram», racconta Suzy. «È estraneo dal mio spazio quotidiano, perciò mi piace. Quando sono qui riesco a concentrarmi: a casa o al lavoro ho troppe cose da fare. Fino a poco tempo fa mi sentivo insicura, il lavoro era instabile. E non finiva mai: più di cinquanta ore alla settimana, sempre connessa, sempre col cellulare in mano». «È vero, lavoriamo troppo», interviene Dongju. «Chi il lavoro ce l’ha però se lo tiene stretto. Abbiamo un sacco di amici che stanno ancora cercando un impiego, è dura». I sudcoreani lavorano in media 1.915 ore all’anno, ben oltre la media dei Paesi Ocse, che è di 1.716 ore. «Se pensiamo al matrimonio? Sì», risponde Dongju tenendo la mano della sua ragazza. «Ma non penso avremo dei bambini: troppo costoso metter su famiglia». Problema comune a molti Paesi asiatici. «Per mantenere dignitosamente una famiglia di 4 persone in una città come Seul ci vogliono almeno 5-6mila euro al mese», ci racconta un tassista. Il tasso di fertilità, già tra i più bassi al mondo da anni, è sceso a 0,78 figli per donna nel 2022. Con un tasso di 0,81 nel 2021, la Corea del Sud era già agli ultimi posti tra le oltre 260 nazioni monitorate dalla Banca Mondiale.
Cantine riadattate ad appartamenti
La casa. Uno dei problemi principali di questa città. «In media per comprarsi un appartamento serve almeno un milione di euro», ci racconta Ki, trentenne architetto, mentre passeggiamo per le lussuose strade di Gangnam. «Per non parlare, poi, di zone come questa: qui di milioni ne servono tre o anche quattro». E così molti giovani, ma non solo, ripiegano su altre soluzioni: le
banjiha,
cantine riadattate ad appartamenti Si trovano un po’ dappertutto, anche nelle zone centralissime. Le abbiamo conosciute – minuscole, buie – grazie alle avventure della famiglia Kim nel film premio Oscar del 2019 del regista Bong Joon-ho, “Parasite”. Ora, non tutte sono così squallide, certo, ma il governo ha deciso di vietare di costruirne di nuove. Il motivo? Le piogge e le inondazioni che hanno colpito la città l’estate scorsa – le più forti degli ultimi 115 anni – che hanno ucciso tredici persone.
Fino a due anni fa – ultimi dati disponibili – di appartamenti così in città se ne contavano 200mila: il 5% di tutte le abitazioni della capitale. Oggi l’affitto si aggira sui 540mila won (circa 400 euro) al mese: soluzione “perfetta”
soprattutto per giovani e famiglie a basso reddito. Scarsa aerazione, perdite d’acqua, mancanza di facili vie di fuga, muffa, habitat perfetto per insetti e batteri: a molti non importa visti i prezzi bassi. Negli ultimi anni Seul è diventata sempre più inaccessibile soprattutto per i giovani che devono far fronte ai salari fermi al palo, a un mercato del lavoro spesso immobile e a un costo degli affitti in aumento. Cantine riadattate ad appartamenti, le banjiha non sono solamente una stranezza architettonica, ma un prodotto della storia recente del Paese. Nel 1968 alcuni commando nordcoreani entrarono a Seul con l’obiettivo di assassinare il presidente Park Chung-hee. Il raid fu sventato, ma la tensione tra le due Coree si intensificò. Temendo un’escalation, nel 1970 il governo sudcoreano aggiornò le norme edilizie, imponendo a tutti i condomini di nuova costruzione di avere un seminterrato da utilizzare come bunker in caso di emergenza nazionale.
La più grande base di semiconduttori del mondo. È quella che vuole costruire la Corea del Sud nei prossimi due decenni. Sorgerà entro il 2042 nella città di Yongin, nella provincia di Gyeonggi, vicino a Seul, grazie a investimenti da quasi 230 miliardi di euro del colosso Samsung. Un progetto che fa parte di un più ampio programma delineato dal governo sudcoreano per sostenere circa 418 miliardi di investimenti privati in settori strategici ad alta tecnologia, tra cui semiconduttori, display e batterie. Non solo potenza culturale, la Corea del Sud, ma polo all’avanguardia nelle tecnologie. Oggi i semiconduttori rappresentano quasi il 20% delle esportazioni totali del Paese, per un valore di 112 miliardi di dollari nel 2022.
Terrazza con vista sul nemico
Una visita a Seul non è completa senza una gita al 38esimo parallelo, il confine imposto il 27 luglio del 1953 che ancora oggi divide le due Coree, tecnicamente ancora in guerra, una striscia di terra larga quattro chilometri – due a nord e due a sud del confine – la Dmz, la Zona demilitarizzata. Una gita turistica, un’ora di macchina da Seul, qualunque albergo della capitale offre tour con tanto di brochure coloratissime: una gita diventata un po’ kitsch a dire la verità, per andare ad esplorare uno dei luoghi più caldi sulla faccia della Terra, il confine più blindato e controllato del mondo. Mentre ci si allontana dalla città si iniziano a vedere le prime barriere di filo spinato sul fiume. Arrivati nel grande piazzale di Imjingak, dove spunta pure un enorme luna park con le giostre, si va in biglietteria a scegliere il proprio pacchetto per la giornata. Per 9.500 won (sei euro e mezzo) ci si assicura il brivido di sbirciare il Regno eremita dall’altra parte, la Corea del Nord della dinastia dei Kim, il Paese più recluso e misterioso al mondo. Cinque milioni di visitatori vengono qui ogni anno. Ogni mezzora parte un bus, ogni tappa ha regole rigide: massimo 20 minuti a fermata. Chi vuole può optare anche per la versione del bus “Vip experience”: chissà che offrono lì dentro. «Questa è nuova: hanno costruito un’altra diavoleria per turisti», ci dice la guida. L’hanno chiamata “Gondola della Pace”: una funivia per vedere dall’alto la Ccz, la linea di controllo civile. Ci sono negozi che vendono souvenir “Made in Dmz”: magliette, cappellini, tazze, divise dell’esercito. Il nostro autobus parte alle 11. L’autista ci spiega le regole. Al primo checkpoint salgono due giovanissimi militari sudcoreani a controllare i passaporti: operazione ripetuta anche al ritorno, al termine delle due ore e mezza di tour, non sia mai che qualche disertore si sia infiltrato tra queste famigliole e coppie in gita qui.
La prima tappa è uno dei 4 tunnel scavati dai nordcoreani per attaccare Seul, 1.635 metri di lunghezza, scoperto dai sudcoreani nel 1978. In testa bisogna mettersi un caschetto blu da minatore, poi a bordo di una monorotaia che ti porta fino a tre quarti del tunnel. Il resto a piedi, piegati in due, per arrivare a una finestrella e sbirciare il confine. Chi è più alto di un metro e 75 si dà delle sonore capocciate. Meno male che c’è il caschetto. Si prosegue fino all’osservatorio sul Monte Dora, una terrazza con vista sul nemico, dove con grandi binocoli, nelle giornate limpide, si vedono in lontananza le fabbriche di Kaesong, la prima grande città nordcoreana appena al di là del confine, e i resti dell’ufficio di collegamento che Kim Jong-un ha fatto saltare in aria qualche anno fa. Conclusione nel villaggio dell’unificazione, sospeso a metà tra due mondi lontanissimi. In realtà del villaggio non ti fanno vedere niente, ma l’attrazione principale dove orde di turisti assetati e affamati si dirigono è un piccolo supermercato dove ci trovi pacchi giganti di riso coltivato in queste zone, buste di ginseng, kimchi e gli immancabili souvenir.
È attraverso questo confine che fino al 2018 i due Paesi si “bombardavano” con la propaganda attraverso gli altoparlanti. Il Nord trasmettendo canzoni che elogiano Kim Jong-un, il Sud – manco a dirlo – sparando a tutto volume gli ultimi successi proprio del K-Pop, dai Bts alle Girls’Generation. Nonostante i continui lanci di missili da parte di Kim, l’ampliamento del suo arsenale e una denuclearizzazione che appare sempre più lontana, i giovanidi Seul non sembrano troppo preoccupati dal minaccioso nemico. «Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine», ci dice Cheolsu, che nella capitale gestisce uno studio di design. «È dagli Anni Settanta che provocano, ma la nostra vita va avanti come sempre».
I disertori del Nord
Grigio, anonimo, accanto a un ristorante con un paio di clienti appena, i muri delle scale scrostati, al terzo piano di questo condominio alla periferia di Seul c’è la sede del Fronte di liberazione popolare della Corea del Nord. Una ventina di disertori arrivati qui al Sud, quasi tutti ex militari, con uno scopo: far cadere il regno di Kim. Lo si capisce già dallo stemma di questa brigata non armata: una mappa della Corea con un mirino puntato su Pyongyang. Ad accoglierci è il capo del Fronte, Choi Jung-hoon. È stato un ufficiale dell’esercito prima di partire, quasi per caso, nel febbraio 2006. «Venni a sapere che una famiglia sudcoreana che viveva in Cina offriva 10mila dollari per ritrovare un uomo che era stato rapito al Nord nel 1975. Lo cercai per due mesi. Lo trovai». Choi porta quell’uomo in Cina per fargli riabbracciare la famiglia. Vuole i soldi che gli spettano. «La famiglia però fa un errore: convoca una conferenza stampa e rivela il mio nome. Il regime ordina di uccidermi. Non potevo tornare indietro. Attraverso Cina, Myanmar, Laos, fino ad arrivare in Thailandia. Era il settembre 2007. C’è un accordo speciale tra l’ufficio di immigrazione thailandese e la Corea del Sud: e così arrivo a Seul, il 28 dicembre di quell’anno».
Una delle operazioni principali del gruppo di Choi è contrabbandare dispositivi elettronici verso il Nord. Mostra con orgoglio un aggeggio rosso a metà tra un pc portatile e un palmare. «Lo producono i cinesi, serve a leggere i Dvd e i contenuti memorizzati in chiavette Usb. Camuffiamo le schede di memoria dentro sacchetti di plastica pieni di caramelle, cioccolatini e biscotti e li facciamo arrivare oltre confine con dei gommoni lungo il fiume. Non ci hanno mai beccati finora», afferma orgoglioso. Ma che cosa c’è in quei Dvd e in quelle schede di memoria? «Filmati con scene di vita quotidiana: gente che va al lavoro, a fare la spesa. Cose così, semplici. Per far vedere la differenza tra i due Paesi». Choi dice di aver studiato all’Università Mirim, una delle migliori università tecnologiche della Corea del Nord, specializzata nella formazione di hacker. «Ne creano circa tremila l’anno. Il governo seleziona i più bravi e li manda all’estero, Cina, Singapore, Malaysia, Vietnam: centri per operazioni di hackeraggio che servono a portare soldi nelle casse del regime di Kim oltre che informazioni preziose che riguardano i dissidenti che vivono all’estero». Circa 30mila nordcoreani sono fuggiti al Sud finora. Tra di loro c’è anche Lim Il. Lo incontriamo in un caffè in una zona a sud del fiume Han. Oggi fa lo scrittore e il giornalista. È stato uno delle migliaia di operai che il regime spediva – e spedisce ancora oggi – in giro per il mondo. Anche qui, lo scopo è fare cassa: per migliorare l’arsenale del regno eremita. E per arricchire la dinastia dei Kim. «Nel 1996 venni inviato dal regime in Kuwait, come falegname», ci racconta Lim. «Ho resistito cinque mesi. Non mi hanno mai pagato. O meglio, l’azienda pagava, ma il Partito si teneva tutti i soldi. Questa è la base del loro guadagno, per avere valuta estera, dollari. Hanno iniziato a farlo negli Anni Settanta mandando manodopera nei Paesi africani per andare a costruire lì palazzi, monumenti. Lo hanno fatto in Russia, quando ancora era Unione Sovietica. E, da quello che mi risulta, lo stanno facendo ancora oggi mandando operai nelle regioni ucraine occupate da Mosca durante la guerra».
Dopo quei cinque mesi in Kuwait, schiavizzato, Lim riesce ad andare al consolato sudcoreano e chiedere lo status di rifugiato. «Sono arrivato qui al Sud nel 1997». «L’unica libertà che hanno i nordcoreani è respirare: non possono né vedere né sentire né parlare liberamente». Crede nella riunificazione un giorno? «È una cosa molto lontana. Deve essere alimentata da un movimento che nasce dai cittadini, dalla società civile qui al Sud. Non è ancora così. La società sudcoreana ha i suoi problemi: non sembra pronta a farsi carico dei problemi anche dei nordcoreani».
Lim è convinto che le minacce di Kim, con i recenti test missilistici sempre più frequenti, non vadano prese comunque troppo sul serio. «Se c’è qualcuno che non vuole una guerra quello è proprio Kim. Non guida né un Paese forte né ricco, nonostante quello che ci vuole far credere con la propaganda. Perché dovrebbe imbarcarsi in un’azione del genere? Se ne starà buono al suo posto fino alla morte». Prima di salutarci, Lim decide di aprirsi un po’ di più. «Quando vivevo in Corea del Nord ero sposato. Avevo una bambina, all’epoca quando partii aveva due anni. Non so più nulla di loro. So soltanto che i miei fratelli sono stati cacciati da Pyongyang: vivere nella capitale è un privilegio e date le mie azioni, questo privilegio era stato loro tolto. Se soffro per mia moglie e mia figlia di cui non so più nulla? Certo, ma cerco di non pensarci. Altrimenti non vivrei più. L’ho accettato come parte del mio destino. La fede cristiana mi ha aiutato in questo mio percorso».