la Repubblica, 21 maggio 2023
Le acque della Valle del Po
In principio è il Po, l’antico Eridano. Alla sua destra, gli Appennini donatori, scendono i fiumi d’Ordine Secondario: Reno, Secchia, Panaro, Savio, Taro, Trebbia, Enza, Parma; poi i corsi dell’Ordine Terzo: Montone, Ronco, Santerno, Senio, Lamone, Bidente, Idice, Nure, Marecchia, Sillaro, Ceno, Rabbi, Samoggia, Arda, Cròstolo, Baganza, Setta, Conca, Tidone, Fiumi Uniti; quindi è la volta dell’Ordine Quarto: Aveto, Sàvena, Stirone, Chiavenna, Uso, Cedra, Tresinaro, Chero, Zena, Canale Navile, Recchio, Quaderna, Rovecchia, Rubicone, Ongina, Bevano, Parola, Scoltenna, Limentra di Treppio, Pisciatello, Borello, Luretta, Marano, Tièpido, Canale della Botte, Guerro, Sintria, Acerreta, Gaiana, Fossa di Spezzano, Brasimone, Ausa, Sellustra, Ghiaia di Serravalle, Dolo, Silla, Lavino, Tavollo, Leo, Dragone.
Tutti tengono a sud la catena che funge da spina dorsale della penisola, da cui i più nascono, e volgono verso nord per portare leloro acque sino nel Po, nel Reno e in altri fiumi, per gettarsi infine nel mare Adriatico. Visti su una cartina colorata in blu questi corsi sembrano gli alveoli d’un immenso polmone, come ha scritto il geografo Davide Papotti. Sono le acque che rendono irrigue la Valle del Po, frutto di un complesso lavoro geologico durato milioni di anni e dell’altrettanto lento, ma deciso, intervento millenario di uomini e donne della Pianura. Cominciarono i Romani, dopo aver conteso l’Italia all’invasore cartaginese, a dividere la Pianura in tanti rettangoli, le centurie, e affidarle via via ailegionari che avevano combattuto le guerre puniche e poi quelle civili repubblicane. La grande foresta che copriva la Pianura fu demolita a colpi di scure e gli uomini venuti dalla Città fatale s’insediarono là dove prima vivevano fiere e popoli fieri come Galli, Liguri, Etruschi. Diversi per origine e provenienza – nessuno sa bene da dove siano arrivati qui alcuni di loro – diventarono tutt’uno con quel territorio, per quanto attraversato da poli migratori – i barbari nei libri scolastici d’una volta –, che modellò il loro carattere: freddo, umido e nebbioso d’inverno, umido, caldo e soffocante d’estate.
La natura forma i caratteri e li deriva dal clima. Così per migliaia d’anni le genti della Pianura crebbero con una indole testarda, cocciuta e incline al silenzio. Lavorare la terra implica guardare verso il basso, là dove affonda la zappa, uno dei più antichi utensili umani, verso una terra grassa per via della composizione del suolo effetto del deposito procurato dal cammino lento e implacabile dei suoi corsi d’acqua. Discendenti dei Romani oppure dai cavalieri Sarmati che fossero, gli abitanti della Pianura alluvionale hanno sviluppato un senso di attaccamento a questa terra che è piatta, uniforme e monotona. Un luogo dove l’orizzonte è qualcosa di lontano e irraggiungibile: il punto dove la terra tocca il cielo e sembra cercare di afferrarlo. Tutto è ad un tempo vicino e lontano: tutto è qui – la casa, la terra, i campi – e anche là – l’albero, il cielo, le nuvole. Il padano, sia che viva sul corso del Po, o invece abiti nella prossimità delle montagne della catena prealpina lombarda o lungo il litorale basso e sabbioso della Romagna – la pianura s’allarga per chilometri e chilometri ignorando i confini inventati dagli uomini –, ama l’incedere lento e riflessivo, per quanto incline all’imprevedibile stravaganza, e sempre teme le acque copiose che ingrossano i suoi fiumi e torrenti.
Ha lavorato per duemila anni almeno per imbrigliare una natura avversa e restia a farsi sagomare, sapendo che l’unica possibilità per sopravvivere era quella di modellare il territorio in modo razionale seguendo le linee rette tracciate dai progenitori romani. “Fossi e cavedagne benedicon le campagne”, suona il titolo d’un libro di Carlo Poni dedicato a un periodo – dal Rinascimento all’Ottocento – che copre l’arco di cinque secoli, apice indiscusso della civiltà contadina che ha testardamente modellato la Valle. Ben prima di quest’epoca un poeta, Francesco Petrarca, tra Valchiusa e Arquà attraversò la Pianura a cavallo e su barche, a seconda delle stagioni e delle occasioni. Amante dell’acqua ghiacciata, l’autore del Secretum era inseguito dalla malinconia che questo paesaggio uniforme produce in chi l’abita anche per qualche tempo, poiché lo stato d’animo connotato dalla vaga tristezza è una condizione costante di chi vi risiede, al punto che quasi nessuno degli abitanti dei pagus, villaggi, paesi e città della Pianura sembra accorgersene neppure, poiché considera questo sentimento, nato da una sensazione d’inquietudine al confine con il senso di delusione, come la disposizione naturale del proprio sentire di sé, degli altri e del paesaggio intorno.
Tra i molti, ma non moltissimi, scrittori che hanno dato forma a questa natura intima – Delfini conil magone, Celati con la follia serena degli spaesati, Cavazzoni con la bizzarria dei lunatici – c’è Giovanni Guareschi, nato a Fontanelle di Roccabianca e morto a Cervia. Con i racconti del Mondo piccolo e con i film tratti dalle sue storie, al netto delle sue polemiche politiche, dell’anticomunismo e del modo guascone e cocciuto d’essere giornalista, Guareschi ha dato vita alla piccola epopea della Valle Padana, delle genti contadine che con l’acqua e con le ricorrenti alluvioni hanno avuto una certa confidenza, venata di disperazione, ma anche l’inguaribile volontà di ricominciare, sia che abitino vicino al Po o al Savio o al Ronco o al Reno. In un passo di quelle storie, che uniscono e mescolano in una sola saga le pagine scritte e le immagini cinematografiche, è descritta l’invasione delle acque e il sentimento provato dagli alluvionati: “Guardavano muti il paese che era lì sotto, a mezzo miglio e ognuno vedeva la sua casa anche se non la vedeva. Nessuno parlava: le vecchie piangevano senza strepito.
Stavano lì a veder morire il loro paese, e lo vedevano già morto. C’era un metro d’acqua in chiesa e i banchi e i confessionali si erano capovolti e navigavano in quel fango liquido. La porta della chiesa era spalancata e si vedeva la piazza con le case annegate e il cielo grigio e minaccioso. “Fratelli – disse don Camillo – “Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a risplendere il sole”. Nella Pianura anche la tristezza e la malinconia appartengono a un sentire che aiuta a resistere e a riniziare.