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 2023  maggio 21 Domenica calendario

Intervista a Eva Riccobono

Eva Riccobono, palermitana con la faccia da tedesca. Figlia di un amore da Riviera Romagnola?
«Figlia della immigrazione, più che altro. Mio papà Giacomo andò a lavorare in Germania con suo fratello e lì conobbero due sorelle: una era mia madre Elisabeth. Alla fine i due fratelli si sono sposati con due sorelle».
Matrimonio riparatore?
«Matrimonio d’amore. Mia madre mi raccontava che all’epoca in Germania arrivavano molti italiani, promettevano mari e monti, e poi scappavano lasciando la fidanzata tedesca incinta. Quando papà disse: “Torno a Palermo, sistemo tutto e poi torno”, mia mamma ha pensato “eccone un altro”. Invece lui è davvero tornato, l’ha sposata e hanno fatto altri quattro figli».
Lei è l’ultima.
«Io sono “l’errore”. Quando prendevo le parti di mia mamma, papà diceva: “Oh guarda che tua madre non ti voleva, sono stato io a dire di tenerti”. E allora io gli spiegavo che in psicologia queste frasi di un padre a una figlia erano vietate...».
Ci rimaneva male?
«Per nulla, ci scherzavamo su. Ho sempre visto il mio arrivo come un dono. Mia madre prima di me aveva avuto un aborto spontaneo: papà, che era un po’ magico, aveva convinto tutti che fossi il figlio di prima che stava provando di nuovo a venire al mondo. Ero sempre io, ho bussato due volte per nascere».
Perché si chiama Eva?
«Mia mamma, da buona tedesca con la passione per i tabloid inglesi, alle sue figlie ha dato dei nomi assurdi: Sabine, Gessica, Dàvina ed Eva. Sembriamo quattro pornostar».
Un’ultimogenita viziata o di quelle che se il ciuccio cadeva neanche lo si lavava?
«Entrambe. Come dice una mia amica, sono cresciuta mangiando dalla ciotola del cane. Ma in adolescenza, quando tutti erano indipendenti, ho avuto mia madre solo per me. Mi portava dappertutto e avevamo un bellissimo dialogo».
Un siparietto di casa sua a Palermo.
«Mio padre, verace, che con la “e” apertissima chiama mia madre, elegante come un cigno: “Elisabèèètta scendi giù a prendere l’olio”. E lei: “Giacomo, per favore, puoi non urlare...”».
Chi la riempiva di baci?
«Mio padre aveva il calore tipico dell’uomo siciliano. A volte chiedeva a noi figlie di fare la traduzione alla mamma delle sue battute piccanti. E lei: “Meglio di no, non so se avremmo avuto una relazione lunga se avessi capito quello che diceva”».
Una famiglia serena e senza fronzoli.
«Mio padre era un elettricista con un negozio di autoradio. Mamma una ex insegnante. Mi sono resa indipendente presto, non perché mi mancasse qualcosa, era la mia natura».
I suoi fratelli.
«Mio fratello Nicola, il maggiore, è morto a 19 anni in un incidente in moto. Quando perdi un figlio le famiglie si spezzano, invece, i miei hanno trovato un nuovo equilibrio. Ho riflettuto su questa perdita e ho capito che la morte di Nicola ha avuto su noi sorelle conseguenze diverse. Io sono stata la figlia “coprilutto”: ero la piccola, sentivo il dovere di rendere la vita più lieve a tutti».
In che modo copriva il lutto?
«Io e Nicola eravamo i tedeschi della famiglia, biondi, con gli occhi chiari, anche caratterialmente simili. Papà ha iniziato a trattarmi un po’ da maschio: ero compiaciuta di compensare la mancanza. Per tanto tempo mi sono sentita più uomo che donna e tuttora sono mascolina».
In cosa si sente maschio?
«Mi immedesimo di più negli uomini che nelle donne. Non sono competitiva e sono stata addestrata ad avvistare una bella ragazza in lontananza ed, eventualmente, anche a segnalarla: “Ragazzi, gnocca a ore 15”. Lo faccio anche con mio marito: non sono gelosa delle ex».
Come è stata scoperta?
«Ero fidanzata con un ragazzo che lavorava in una società di produzione. Un giorno sono andata a trovarlo a casa della famiglia Florio, dove stavano scattando per Vogue. Me ne stavo sul divano come una “piunca” e mi hanno detto che volevano farmi una foto».
Una «piunca»?
«Sì, un pesce lesso, in palermitano. Ero infastidita da quella attenzione: ho fatto uno sguardo del genere “ma cosa vuoi da me”».
Non le piacciono i complimenti?
«Certo ma se diventano molesti me la sbrigo da sola e dico: “Ciccio, smamma”».
La sua vita è cambiata inevitabilmente.
«Dentro di me sapevo che sarebbe accaduto qualcosa, che avrei viaggiato. Credo molto nel caso».
Una cosa bella del suo lavoro.
«Finalmente il mio essere alta, magra e piatta non era più un problema. Da piccola mi chiamavano “quattro ossa incatenate” o “Pianura Padana”. Sono fiera di non essermi rifatta il seno».
Una cosa brutta.
«Pensavano che fossi straniera e ai casting sentivo i commenti: “Non mi piace, c’ha la faccia da slavata, che noia”. Un fotografo mi disse: “Non vai bene, non esci, non sei fotogenica”. Poi l’ho rivisto quando ero diventata un nome».
Che cosa gli ha detto?
«Che non essere fotogenica mi aveva portato bene. A Palermo quando ci si prende la rivincita si dice “mi sono mangiato una fetta di carne”. Ecco, mi sono mangiata molte fette di carne».
Gli stilisti: Gianfranco Ferré.
«Una delle esperienze più belle: nella sua biografia ufficiale c’è il capitolo “Eva Riccobono”. Diceva che ero stata la sua ultima musa».
Come lo aveva conquistato?
«Essendo poco ambiziosa e giocherellona, non ho avuto mai il timore reverenziale. Nella moda c’è gente che pensa che stia salvando il mondo, io invece lo punzecchiavo: quando arrivavano i cioccolatini glieli rubavo sotto il naso. “Ma che bel cioccolatino! Peccato che non lo puoi mangiare!”. Lui ricambiava con calci sugli stinchi».
Non lo chiamava architetto?
«No, lo chiamavo Gianfri. Gli dicevo: “Ma che architetto sei, quando mai hai fatto un palazzo?” Quando c’erano i litigi più pesanti, mandavano avanti me. Gli altri erano spaventati, io mi facevo avanti offrendogli una cioccolata calda».
Giorgio Armani.
«Lui è immenso. Quando ho debuttato al Teatro Parenti in Coltelli nelle galline diretto da Andrée Ruth Shammah è venuto a vedermi. A pochi minuti dall’inizio è entrato dietro le quinte un assistente: “C’è Armani in prima fila!” Non va mai da nessuna parte: un regalo grande».
Non ha avuto paura di fare l’attrice?
«Moltissima. Al Festival di Spoleto, sul palco, credevo di avere un ictus: non avevo più il controllo della bocca e delle mani, ma ho proseguito lo spettacolo. Poi all’ospedale mi hanno spiegato che ho avuto una iperventilazione, mi sono dovuta curare con integratori da atleta».
Chi ha creduto subito in lei?
«Mio marito Matteo: è stato lui a spronarmi».
Matteo Ceccarini, producer musicale, 11 anni più di lei, da 19 suo compagno e da un anno suo marito. Come vi siete conosciuti?
«Al Life Ball di Vienna. Era un periodo della vita in cui avevo deciso di fare tutto sbagliato: avevo 21 anni ed ero sempre stata buona e tranquilla. A un certo punto volevo provare tutto, compresa una “one night stand” con un ragazzo appena conosciuto che mi piaceva. Era lui».
Come è finita?
«Dopo la notte insieme, ho lasciato la sua stanza. Avevo in mente i discorsi dei miei amici maschi: “Eva, regola numero uno, la mattina vai fuori dalle balle, tanto a noi uomini della colazione insieme non ce ne frega niente”. Invece lui mi ha cercata: “Ma dove sei sparita? Torna”».
È geloso?
«Dice di no, ma forse un po’ sì: quando vivevamo in Inghilterra mi diceva che ero la Bellucci di Londra, slavata ma con un sottofondo mediterraneo. “Ti guardano tutti, anche qui”».
Ha mai sentito la differenza d’età?
«Di sera uscivo con il mio gruppetto di amici gay, al rientro lo trovavo sveglio con il libro in mano. Mi guardava e mi diceva: “Hai bevuto? Dai vai a letto”. Mi ha lasciata libera di crescere».
Avete due figli, Leo e Livia.
«Credo che la cosa che mi riesce meglio nella vita è fare la mamma, è un lavoro difficile, ti devi dare molto. Non ho voluto tate: Matteo spesso lavora da casa e mi dà una mano».
Laura Chiatti ha detto che l’uomo che aiuta in casa uccide l’eros.
«Laura è una cara amica e ci siamo sentite dopo questa inutile polemica: qualcuno si eccita con le tettone, lei con il macho. E allora?».
E allora?
«Basta con queste finte lotte. Vogliamo fare seriamente i femministi? Bene, siamo un Paese cattolico, dateci una Papessa».
Quando si arrabbia parla in palermitano?
«No, ma si aprono tutte le “e”».
Un detto siciliano che le piace?
«Cchiù longa è a pinsata, cchiù grossa è a minchiata: più ci pensi più rischi di sbagliare. Lo diceva anche Fiorello quando facemmo una gag a Stasera pago io».
C on chi le piacerebbe lavorare ora?
«Con Matteo Garrone, mi piacciono le persone autentiche».
Amiche nel mondo della moda?
«Le conosco tutte, ma non mi scambio confidenze con loro. Incontro con piacere Maria Carla Boscono, anche se all’inizio non mi sono sentita accolta da lei: era più scientifica ed è stata premiata per questo. Oggi è un’icona».
Ed Elly Schlein su «Vogue»?
Mascolinità
A lungo mi sono sentita più uomo che donna, e tuttora sono mascolina
Non sono competitiva
e sono stata addestrata
a riconoscere una bella ragazza a distanza
«È il segno della modernità e della vanità che tocca tutti. Come diceva Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo: “La vanità è decisamente il mio peccato preferito”».