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 2023  maggio 21 Domenica calendario

Intervista a Salgado

Sebastião Salgado, come si trova in Italia? Non pensa che la società sia aggressiva ma non violenta, mentre nel suo Brasile è violenta ma non aggressiva?
«In Italia mi trovo benissimo. Soprattutto qui a Milano. La trovo una città più calma di Roma».
Davvero? Di solito si dice il contrario.
«No, a Roma c’è più tensione, più nervosismo; i milanesi hanno il controllo di se stessi. Una volta era così anche in Brasile. San Paolo era una metropoli pacifica, la città “dura” era semmai Rio. Il Brasile della mia infanzia era il Paese della dolcezza del vivere. Certo, esisteva una componente di violenza; ma perché vivevamo nella campagna, isolati. Tutti giravano armati».
Anche lei?
«Siccome ero piccolo, mio padre mi aveva regalato un fucile piccolo, calibro 10, con cui lo accompagnavo nei suoi viaggi».
Cosa faceva suo padre?
«Aveva quindici muli per trasportare il caffè dai campi al mare: venti giorni attraverso la foresta, sempre a piedi perché i muli servivano per il caffè, non per gli uomini. Si chiamava come me, Sebastião Ribeiro Salgado; ma lo chiamavo senhor, signore. Poi ha fatto il panettiere, i suoi clienti erano i mulattieri. Infine comprò un po’ di terra. Girava con il fucile e con il revolver. Era un uomo duro; ma con quella vita non avrebbe potuto essere diverso».
E lei?
«Ero l’unico maschio e avevo sette sorelle. Andavo a cavallo, sorvegliavo il bestiame. Sono nato ad Aimores, Minas Gerais, lo Stato delle miniere. Poi sono andato a studiare a Vitoria. All’università ho conosciuto mia moglie, Lélia: siamo insieme da sessant’anni».
Lei nella sua prima vita è stato un economista.
«A San Paolo ci insegnavano lo sviluppo, come lo si pensava allora: costruire strade, abbattere foreste. Entrai al ministero delle Finanze, fui ammesso a un master da soli venti posti. Ero sulla strada per rappresentare il Brasile in qualche istituzione finanziaria. Poi arrivò la giunta militare».
E lei divenne un oppositore.
«Un militante di sinistra. Ogni tanto qualche collega spariva: veniva imprigionato, torturato, assassinato. Lasciai il Brasile. C’era un progetto per formare i quadri e poi tornare, dopo la caduta della dittatura. Nel 1969 andai a Parigi, poi a Londra, per l’Organizzazione internazionale del caffè. Non avevo mai preso in mano una macchina fotografica».
Quando comincia la sua seconda vita?
«Fu Lélia a trasmettermi la passione. Ricordo una discussione ad Hyde Park, sul Serpentine Lake: ero di nuovo al bivio, tra la Banca Mondiale e la fotografia. Pensai che non ero più giovane. Ma potevo ancora essere un giovane fotografo».
E andò in Portogallo a raccontare per immagini la rivoluzione dei garofani.
«Affittammo una casa a Lisbona, vicino al Museo d’arte antica, giravamo su una Renault 4. Vidi crollare un regime durato mezzo secolo, ritrassi Otelo de Carvalho. Poi partii per il Mozambico e l’Angola, dove era scoppiata la guerra fratricida: una violenza che non potete immaginare. Rimasi ferito, ho ancora due schegge nel braccio sinistro e una qui al fianco».
Il 30 marzo 1981 fotografò l’attentato a Ronald Reagan: uno scoop mondiale.
«Sono in Australia tra i canguri, devo tornare a Parigi via Londra. Un collega inglese mi propone di scambiare il mio biglietto con il suo, che fa la rotta del Pacifico: Sidney-San Francisco-New York-Londra. Accetto: è la mia prima volta negli Stati Uniti. E il New York Times mi ingaggia per fotografare Reagan: la storia dei suoi primi cento giorni».
Il presidente si era insediato il 20 gennaio.
«Sono ancora vestito da canguri; per entrare alla Casa Bianca devono imprestarmi la giacca, anche se ha le braccia corte. Reagan mi saluta cordiale: “How’re you, young man?”. Nel week end lo seguo dappertutto, anche in chiesa. Il lunedì deve andare all’Hilton per una conferenza. Mi dicono: lì non puoi venire».
E lei?
«Rispondo che non è possibile, devo seguire il presidente ovunque e sempre. Così mi fanno salire sul van degli agenti dell’Fbi: certi bestioni che ridacchiano di me. Reagan comincia a parlare, io lo fotografo con tre macchine: una Leica da 50 millimetri e due Nikon da 28 e 180 millimetri. Quella da 180 è l’unica con la pellicola a colori, ma l’immagine viene un po’ sgranata, così preferisco le altre. Scatto da ogni posizione, poi vedo che i colleghi si muovono verso l’uscita: Reagan sta per finire il discorso. Tento di unirmi a loro, ma mi bloccano».
Perché?
«Sono un pool: Time, United press, Associated press; lavorano da soli. Io sono in ritardo, corro verso l’uscita, mi dicono che sono pazzo non si corre quando c’è il presidente potrebbero spararmi, così un agente mi tallona per proteggermi, grida “Fbi Fbi Fbi!”. Sento i primi botti, qualcuno pensa a fuochi d’artificio ma io sono stato in guerra e so distinguere i colpi di pistola dai fuochi d’artificio, scatto con la prima macchina che afferro, è quella con la pellicola a colori, l’immagine del presidente colpito uscirà un po’ sgranata, quasi viola. Confusione immensa, tutti vengono allontanati ma io continuo a scattare, gli agenti dell’Fbi ormai mi considerano uno di loro. Fotografo anche la testa di un poliziotto, Brad, aperta da un proiettile, il sangue tamponato con il fazzoletto…».
Quanto occorreva per sviluppare la pellicola?
«Di solito due settimane. Il laboratorio del New York Times fece tutto in mezz’ora. Le foto girarono il mondo, Paris Match che chiudeva il martedì noleggiò un Boeing per portarle in Francia. Mi ci sono comprato casa a Parigi».
Un’altra sua immagine celebre è la miniera di Serra Pelada. I dannati della terra.
«Sì, ma quei minatori non sono schiavi. Sono lì per libera scelta. Anche Bolsonaro e suo padre hanno lavorato a Serra Pelada. Dietro quella foto non c’è lo sfruttamento, c’è la febbre dell’oro, l’avidità della ricchezza. Da undici anni chiedevo di fotografarli, ma la miniera era controllata dall’esercito, e in quanto sovversivo mi negavano il permesso. Meglio così. Sarei dovuto andare in aereo e rientrare in giornata. Quando l’esercito lasciò Serra Pelada, vi ho passato sette settimane. Vivevo con i minatori, mangiavo il loro riso, i loro fagioli, dormivo su un’amaca. Vietati l’alcol e le donne; 50 mila cercatori, tutti uomini. La montagna era stata tagliata in due. Loro sanno riconoscere la vena d’oro dal colore della terra che la circonda, una parte del minerale viene messa in comune».
Lei ha due figli, Juliano e Rodrigo, che ha la sindrome di Down.
«Lélia ha una nonna india, quando nacque Rodrigo mi sforzai di pensare che gli occhi a mandorla venissero da lì… Quando le analisi confermarono la trisomia piansi per tre giorni. Poi mia moglie si è distesa su di me, mi ha avvolto con il suo calore. Insieme abbiamo capito che l’unica cosa da fare era accogliere il nostro bambino, amarlo, vivere e crescere con lui. Il suo amore è stata un’immensa gioia nella nostra vita».
Perché il Brasile è diventato così violento?
«Per lo sradicamento dei contadini. Prima sono costretti a vendere la terra e diventano salariati nelle grandi piantagioni di canna da zucchero e caffè: alle 5 del mattino un camion li viene a prendere e li riporta a casa la sera. Fino a quando un mattino il camion non viene, la produzione è finita, oppure ha trovato braccia ancora meno costose. Allora i contadini vanno a tentare la sorte in città. Non hanno casa, a centinaia di migliaia vivono gettati per strada. È una degenerazione terribile. Droga, crimine, lotta per la sopravvivenza».
Ora la sinistra è tornata al potere con Lula.
«Lula non ha fatto la riforma agraria. Non ha lavorato per i contadini. Veniva dall’industria, voleva creare lavoro nel mondo che considerava il suo».
E Bolsonaro?
«Ha accelerato la distruzione dell’Amazzonia. Ora una donna india è diventata ministra delle Questioni indigene. Ma ormai solo una piccola parte delle terre appartiene alle comunità indigene. Un’altra parte è parco nazionale; il resto viene sfruttato. Per quanto l’Amazzonia sia immensa, le terre coltivabili sono preziose perché scarse: quando si sciolgono le nevi sulle Ande, interi territori vanno sott’acqua».
Quanto ha vissuto in Amazzonia per scattare le foto che ora vediamo in mostra?
«Ho fatto 58 viaggi, e non sono abbastanza. Nell’Amazzonia si parlano almeno duecento lingue. Ci sono tribù che si sono organizzate politicamente e vanno a Brasilia a manifestare, e altre che non sono mai entrate in contatto con l’uomo bianco. L’Amazzonia è la preistoria dell’umanità».
Lei crede in Dio?
«No».
Quindi non crede nell’Aldilà?
«Non c’è vita dopo di noi; c’è vita prima di noi. Se esiste un dio, è Darwin, che ha intuito l’evoluzione, il cambiamento permanente. Quando lavoravo a Genesi, il progetto che mi ha portato in 130 Paesi, rimasi soggiogato dalla forza delle Montagne Rocciose, e uno scienziato mi disse: queste non sono le prime, sono le nuove, un tempo esistevano altre Montagne Rocciose del tutto diverse… Siamo una specie giovane, l’uomo come lo conosciamo ha appena 70 mila anni. Sono sparite specie molto più forti della nostra, come i dinosauri. Spariremo anche noi. E non così lentamente come crediamo».
La specie umana è condannata?
«Assolutamente sì. Il punto di non ritorno è già stato superato. La velocità della distruzione cresce in modo esponenziale. Il riscaldamento sta accelerando, intere aree diventano deserti, il mare sempre più caldo emana sempre più anidride carbonica».
Gli scettici sostengono che la Terra si è sempre riscaldata e raffreddata.
«Certo. Ma nel corso di migliaia di anni. Non di pochi decenni».
Sarà la fine del mondo?
«No. Non finirà il mondo; finiremo noi. Il pianeta ha risorse incredibili, ma le stiamo esaurendo. La Terra è stanca di noi. Ha attivato meccanismi di difesa, per sbarazzarsi dell’uomo. La gente non sa più produrre né coltivare, il sistema è fragile: una crisi potrebbe essere fatale».
Quale crisi?
«Se comparissero contemporaneamente quattro virus come il Covid, l’uomo e anche la scimmia rischierebbero l’estinzione. Se esplodesse Yellowstone, la polvere oscurerebbe il sole per secoli».