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 2023  maggio 21 Domenica calendario

Guerre e migranti, parla Francesca Mannocchi

Iraq e Libano, Afghanistan e Libia, Siria e Ucraina. Quei conflitti Francesca Mannocchi li ha conosciuti tutti. Ha parlato con testimoni e sopravvissuti, feriti e rifugiati, bambini senza padri e vedove che hanno perso i mariti. Un giorno ha deciso che parte di tutto questo avrebbe voluto raccontarlo a suo figlio Pietro di 7 anni. Così è nato Lo sguardo oltre il confine, edito da DeAgostini. Le intenzioni dell’autrice sono ben condensate dalla frase in esergo, del premio Nobel Svetlana Aleksievi?: «Posso raccontare come ho combattuto e sparato, ma raccontare quanto e come ho pianto non posso. Questo resterà non detto. So solo una cosa: in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro». Mannocchi ha presentato ieri il volume al Salone del libro di Torino, e nello stand del nostro giornale ha avuto un lungo dialogo pubblico con la vicedirettrice Annalisa Cuzzocrea.Gli scenari geopolitici tracciati dalla giornalista partono dallo scoop del New York Times, che ha dimostrato come l’Europa respinga i migranti con metodi illegali. In Grecia, a Lesbo, dodici persone provenienti da Etiopia, Somalia ed Eritrea (tra cui bambini) sono state caricate su un gommone senza motore e buttate in mare alla deriva. «Questo è il rischio della politica di esternalizzazione dei confini in atto in quelle isole dell’Egeo – spiega Mannocchi -. È l’effetto della scelta dell’Europa di Angela Merkel di stringere un patto con la Turchia per il subappalto dei confini a sud del Mediterraneo, con l’istituzione di centri di smistamento sulle isole della Grecia, tra cui proprio Lesbo. Non-luoghi in cui le persone non sono né dentro né fuori dall’Europa, dunque possono essere accolte o respinte a discrezione». Quel patto, spiega Mannocchi, dal 2016 a oggi ci è costato circa 6 miliardi di euro, con il controllo dei confini meridionali affidato a un finanziamento sine die alla Turchia di Erdogan. «La Turchia ci ha abituato a varie forme di pressione, a partire dalla militarizzazione della figura del rifugiato, usata come strumento di ricatto ogni volta che si presentavano questioni geopolitiche che riguardavano il Medio Oriente o il Nagorno Karabakh. Sono sempre serviti per ottenere il via libera dall’Europa o dalla Nato. Del resto la Turchia ospita 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani».Non molto diversa la situazione in Libia, su cui la condotta del nostro Paese si è rivelata parimenti opaca. «Quello italo-libico è un accordo bilaterale mai passato dal Parlamento, con un finanziamento alla guardia costiera libica in costante crescita. Gli hanno persino applicato l’adeguamento Istat, come dimostrano gli studi del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le denunce delle associazioni giuridiche. Quindi anziché arginare il fenomeno che avremmo voluto combattere, abbiamo in qualche modo legalizzato quei centri d’accoglienza che in realtà sono veri e propri centri di detenzione. Non è neanche più un mistero, c’è scritto fuori a chiare lettere: “Detention centers”. Solo che dobbiamo deciderci: il finanziamento di uno Stato partner è finalizzato al rispetto dei diritti umani o si tratta semplicemente di una cambiale? In tutti questi anni abbiamo deciso che sia una cambiale».Quella partita doppia si rivela un paravento perfetto per la tratta di esseri viventi, un tema che la giornalista aveva già affrontato nel 2019 nel volume Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi). «L’anno scorso sono stati riportati indietro dalla guardia costiera libica 22mila migranti. Nei centri di detenzione ce ne sono 4mila. Dove sono gli altri 18mila spariti dai radar? Verosimilmente sono stati reinseriti in un processo di sfruttamento lavorativo, sessuale e sportivo, esattamente quel traffico di uomini da cui loro cercavano di scappare».Cuzzocrea fa riferimento alle migliaia di morti sulle nostre coste, sogni di una nuova vita affondati fra le onde del Mediterraneo. Erano tutte persone costrette a scappare, afgani perseguitati dai talebani, persone in fuga dai territori palestinesi. Tra i tanti rifugiati che ha conosciuto, Mannocchi ricorda Fahim, che più di tutti le è rimasto nel cuore. «Conoscerlo ha molto segnato la mia comprensione del fenomeno dei richiedenti asilo. Quando lo incontrai per la prima volta era il direttore del dipartimento di Scienze politiche di un’università di Kabul, prima che la città fosse riconquistata dai talebani. Lui e la sua famiglia erano stati minacciati di morte varie volte, perché si era coraggiosamente esposto contro gli accordi di Doha, che hanno di fatto aperto la strada al ritorno dei talebani. La porta del suo studio era blindata, si muoveva costantemente scortato. Alla fine decise di andarsene senza la famiglia, perché non c’era posto per loro».Oggi Fahim vive in Germania e da due anni non vede la moglie e il figlio, all’epoca appena nato. La giornalista è andata a trovarlo dopo sei mesi che si era trasferito. «Il professore universitario era diventato lo studente di tedesco Fahim Sadat. Oggi vive in una piccola stanza messa a disposizione dallo Stato, insieme a una tessera sanitaria e una alimentare. Quando gli ho chiesto che cosa gli mancasse di più oltre alla famiglia mi ha risposto: “La mia reputazione”. Non il suo ruolo sociale, ma il suo contributo alla comunità. È una cosa che in tanti anni nessuno mi aveva mai detto».