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 2023  maggio 20 Sabato calendario

Orsi & Tori

«Il modo in cui costruiremo un’architettura economica internazionale non sarà con pilastri chiari in stile Partenone, come abbiamo fatto dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma qualcosa che somiglia un po’ di più a Frank Gehry».
Questa frase è di Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Joe Biden ed è finalmente rivelatrice sia delle intenzioni americane sia della evoluzione in atto.
Infatti, Frank Gehry è l’architetto post-moderno più famoso al mondo e lo è come capo della corrente decostruttivista: le sue opere non sono appunto nitide e lineari come il Partenone, ma con forme complesse assolutamente non lineari, come è illustrato dal Guggenheim museum di Bilbao, il progetto che gli diede la popolarità.

Tradotto in politica e soprattutto in economia, vuol dire che l’incontro avuto recentemente, prima e in preparazione del G7 di Hiroshima, da parte di Sullivan con uno degli uomini più influenti della politica cinese, l’ex ministro Wang Yi ora responsabile del settore esteri all’interno della Commissione centrale del partito, non ha portato alla rottura fra i due paesi. Ma il paragone con Gehry vuol dire anche che secondo il braccio destro del presidente Biden non ci sarà più quello schema impostato da Henry Kissinger e che ha fatto per anni della Cina la fabbrica del mondo, appunto fino a farla diventare la prossima maggiore potenza economica del globo. I rapporti, secondo Sullivan, pur ancora di dialogo, saranno assai frastagliati (basta pensare a Taiwan) e l’America farà di tutto per contenere il crescente potere economico della Cina.
Ma c’è un fatto altrettanto importante: non tutti nell’amministrazione americana la pensano in questo modo. Il segretario al tesoro, Janet Yellen, che dal 2014 al 2018, cioè negli anni del grande sviluppo della Cina, è stata presidente della Federal Reserve dice secca: «L’America sta invocando lo stesso ordine internazionale che ha reso possibile la trasformazione economica della Cina». Come dire che fra chi è consigliere per la sicurezza e chi gestisce l’economia americana le visioni sono letteralmente opposte, anche se Sullivan evita la rottura con la sempre più potente Cina.

In questo contesto si inserisce la posizione dell’Italia, le cui aziende stanno puntando decisamente allo sviluppo dei rapporti con la Cina, come del resto fa la Germania e la Francia dello stratega presidente Emmanuel Macron. Con una differenza fondamentale: che l’Italia è l’unico paese che fa parte dell’accordo per lo sviluppo conosciuto come Via della seta. Il progetto, certamente furbo ma anche strategico, fu pensato dal presidente Xi Jinping facendo perno sul ricordo dei bachi da seta portati in Italia da Padre Matteo Ricci e sul viaggio di Marco Polo, per conquistare l’alleanza, quantomeno economica, di Pechino al centro dell’Europa, attraverso tutta l’Asia.
Il trattato sulla Via della Seta scadrà fra alcuni mesi e la presidente Giorgia Meloni ha detto con abile diplomazia che c’è tempo per decidere, anche se da più parti, in particolare quella americana, ci sono spinte a disimpegnarsi. Al vertice del G7 la presidente Meloni ha messo in conto di dover ribadire che l’Italia intende sganciarsi dalla Via della Seta, ma appunto anche se l’Italia avesse già deciso di farlo, sarebbe insensato farlo subito perché, come illustrano le parole di Sullivan e quelle della Yellen, gli Usa non pensano affatto a una rottura commerciale con la Cina, con la Yellen che vede piena continuità mentre Sullivan pensa appunto a strutture meno nette, citando Gehry. In ogni caso la temperatura, che era salita alle stelle quando fu abbattuto il pallone cinese al largo della costa americana, a cui seguì l’annullamento del viaggio in Cina del ministro degli esteri americano, Antony Blinken, ora si è abbassata e il presidente Biden permette che il suo consigliere per la sicurezza parli di differenti tipi di architettura, ma non di abbattere la grande costruzione avviata da Kissinger con la diplomazia del ping pong.

In un contesto come questo, la prudenza della Meloni è più che giustificata, è strategica, anche perché è difficile pensare al necessario sviluppo dell’Italia senza un incremento degli affari con la Cina. E idea identica hanno appunto sia Macron che il cancelliere tedesco Olaf Scholz, tutti e due presenti al G7 in Giappone.
E l’Italia deve cogliere ogni opportunità nei mesi prima che la campagna elettorale americana si faccia brutale e quindi Biden possa essere costretto ad alzare la polemica, dopo aver chiesto a Sullivan un approccio decostruttivista.
Un fatto è certo anche se apparentemente paradossale: le richieste di Biden alla presidente Meloni non fanno che rafforzare il potere negoziale dell’Italia con la Cina: come il capo del governo italiano ha già spiegato agli americani, non è che sia possibile rompere un accordo firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che si recò in visita a Pechino proprio in seguito all’ingresso dell’Italia nella Via della Seta, accordo che comunque ha anche ragioni storiche come quelle descritte. Quindi, la presidente Meloni potrà cercare di ottenere di più da Pechino, soprattutto in termini di esportazioni, mirando almeno al pareggio di quelle della Cina in Italia. Ufficiosamente la presidente Meloni ha fatto sapere che intende cercare di recuperare il controllo di alcune aziende strategiche soprattutto nel campo tecnologico digitale. Ma la Cina è diventata potente nel settore perché tale l’ha fatta diventare l’America, a partire da Apple che ha affidato la produzione degli iPhone alle aziende cinesi. Insomma, non vi è dubbio che l’Italia faccia parte del mondo occidentale di cui è leader l’America, ma non si può imporre a un paese di cambiare strategia dopo che si è convenuto addirittura di far crescere la tecnologia cinese facendogli produrre il device più sofisticato e avanzato al mondo. E poi non va dimenticata la posizione realistica e non ideologica della Yellen. Quindi, Onorevole Presidente Meloni, molto bene la sua linea di prendere tempo e di rispetto verso quello che sta per diventare il paese con l’economia più importante al mondo.

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Martedì 16 l’amministratore delegato di Euronext, Stephane Boujnah, ha celebrato una sorta di giornata di gloria. Segnano, infatti, un ebitda (margine operativo lordo) di ben 171,8 milioni i conti economici della borsa che ha ambizione di essere europea, ma che in realtà è solo pseudo europea. Riunisce infatti i mercati di Parigi, Bruxelles, Oslo, Lisbona Dublino, Amsterdam e (purtroppo) Milano, ma non Francoforte, che è la più importante d’Europa; e non c’è nemmeno Madrid. Per un amministratore delegato è legittimo gioire del risultato economico, ma altrettanto non possono fare i vari paesi che hanno messo in comune la propria borsa e più di tutti non può essere soddisfatta l’Italia. Eppure, dirà chi ha letto l’articolo a pag. 9 di MF-Milano Finanza di mercoledì 17, anche i numeri economici della Borsa di Milano sono stati decantati buoni e lo sono, almeno per le sinergie: 9,7 milioni di euro grazie alla migrazione delle negoziazioni di Milano sulla piattaforma di Trading Euronext Optiq. E l’articolo, correttamente, riporta anche che dal momento dell’ingresso in Euronext le sinergie sono arrivate a 43,7 milioni. Bene, bravi, bravissimi. In teoria potrebbero essere contenti Cdp e Intesa Sanpaolo, che sono gli azionisti per parte italiana. Una società dello stato e la prima banca italiana. Ma se si passa dal ruolo di azionisti a quello di fondamentali operatori del paese Italia, la soddisfazione dovrebbe scomparire.

Se per gli azionisti può contare l’andamento economico dove si è investito, per un Paese, nel caso l’Italia, conta quale sviluppo abbia prodotto il suo mercato azionario per l’economia del paese stesso. E qui è un disastro. Dai listini, nel 2022, sono uscite ben 22 società, la maggior parte dal listino principale. Sì, ne sono entrate 15, ma prevalentemente all’ex-Aim ora Euronext growth Milano (ostinatamente chiamato invece Milan). Ma ancora più grave è che ha ritenuto di uscire dal listino la società erede di quello che per decenni è stato il maggior gruppo italiano: Exor. E dove è andato? Dove vanno tutte, alla Borsa di Amsterdam. E perché vanno in Olanda? Per due vantaggi fortissimi che Amsterdam garantisce: la tassazione fiscale e il diritto commerciale semplificato. Va poi aggiunto che in termini di capitalizzazione, cioè di valore in borsa dei titoli che possono essere comprati e venduti, la differenza fra entrate e uscite dal listino italiano è drammaticamente negativa, nel senso che la capitalizzazione della somma dei due mercati si è abbassata ulteriormente in quanto le società in entrata sono quasi tutte pmi.

Per carità, che ben vengano al mercato le società pmi che sono la struttura portante del sistema economico italiano, ma il loro valore è spesso di qualche decina di milioni, non dei miliardi delle aziende che sono passate ad Amsterdam. E poi se si fa il confronto, il numero delle società pmi quotate a Milano sono ancora una frazione di quelle quotate a Parigi. E a Parigi, che è capofila e organizzatore di Euronext, si sono trasferite anche grandi società italiane: una per tutte Luxottica quando si è fusa con la francese Essilor. Un uomo e imprenditore straordinario come Leonardo Del Vecchio, al momento della fusione, che era assai più conveniente in terra di Francia, aveva dichiarato che avrebbe poi riportato anche alla borsa di Milano la nuova società fusa di cui acquisiva il controllo. Speriamo che non sia stata la morte di Del Vecchio a impedire il ritorno a Milano e che i suoi eredi vogliano mantenere quell’impegno; ma molti elementi lo fanno apparire difficile. Sempre per la ragione che le condizioni generali della borsa, del fisco e del diritto commerciale anche di Parigi sono preferibili a quelle italiane.

Sta di fatto, in più, che i numeri globali del mercato principale italiano sono a livelli ridicoli per una borsa del paese che è la terza economia della Ue.
Recentemente la migliore e maggiore università economica italiana, la Bocconi, ha sentito il bisogno di organizzare un convegno al quale hanno partecipato alcune delle personalità più competenti e con maggiori responsabilità nei mercati finanziari. Il sottosegretario all’economia Federico Freni, un avvocato di grande competenza in materia, ha spiegato che il governo ha preso o sta prendendo provvedimenti per spingere o favorire la quotazione in borsa a Milano: a cominciare da una deduzione fiscale di qualche centinaia di migliaia di euro sulle spese di quotazione più altri provvedimenti certamente benemeriti ma che non hanno assolutamente la possibilità di smuovere il moloch delle aziende italiane che non pensano neppure lontanamente a quotarsi.
Il sottosegretario Freni e le altre autorità ne conoscono bene le cause, a partire naturalmente dalla struttura del sistema economico italiano fatto soprattutto di pmi guidate da famiglie o imprenditori che diffidano della borsa, da molti considerata una bisca e non il luogo dove far confluire il risparmio per finanziare lo sviluppo delle società che producono. È una questione di diffidenza e di cultura. Cioè due mali che affliggono gli investitori italiani, drogati dai titoli di stato che garantiscono un reddito sicuro, legato al disastroso debito italiano. Sta di fatto poi che, nonostante i titoli di stato attraenti, il 70-75% del risparmio italiano va a essere investito nelle borse straniere, in aziende straniere.
Farà certamente bene al mercato che, come sta per avvenire, siano autorizzate a investire in Borsa le casse di previdenza di categoria, ma non basterà sicuramente. Per vincere questa battaglia, che è fondamentale per il futuro del paese, occorre agire contemporaneamente in più direzioni e non illudersi che abbiano decisiva efficacia i provvedimenti varati, i Pir, le autorizzazioni all’investimento degli enti previdenziali di categoria, gli sconti fiscali per i costi di quotazione.
Occorre ricordare che cosa di positivo è accaduto quando il governo Prodi decise di fare una raffica di privatizzazioni per poter entrare nell’euro. Prescindendo dal pessimo risultato per molte delle aziende privatizzate a causa del criterio scelto della costituzione