il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2023
Un libro contro lo Strega
“La bellezza vince solo a volte”. Parola di Gianluigi Simonetti – docente di Letteratura italiana all’Università di Losanna – che in Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario (Nottetempo) racconta i tanti vizi e le poche virtù della nostra narrativa sotto il cielo di Roma al Ninfeo di Villa Giulia.
La fascetta con il logo Strega certifica di rado, a suo dire, un romanzo di qualità.
I romanzi di qualità sono sempre stati pochissimi. I premi – tutti, non solo lo Strega – non rappresentano indicatori affidabili del valore letterario, perché di solito non vanno ai libri migliori in assoluto, ma a quelli che meglio intercettano lo spirito del tempo; non sempre le due cose coincidono.
“Il messaggio degli Amici della domenica: non ci stressate con libri tortuosi e complicati”. Perché questa fuga dalla complessità?
Mi riferisco all’edizione dello scorso anno, in cui nel passaggio dalla dozzina alla cinquina vennero eliminate le opere più complicate. Credo sia dipeso da un desiderio diffuso di evasione ed escapismo: che poi è ciò che accomunava i due libri più competitivi, anche commercialmente: Spatriati di Desiati e Niente di vero di Raimo.
Un premio che non accoglie le opere più stratificate e letterarie è un premio che ha diritto di esistere? Oppure andrebbe ripensato?
Ogni premio ha il diritto di esistere e scegliere la propria strada. Ma noi, simmetricamente, abbiamo il diritto di discuterlo, ed eventualmente criticarlo. Credo peraltro che negli ultimi vent’anni circa lo Strega si sia ripensato, anzi si stia ripensando. Non è più lo Strega del Novecento, è una cosa in parte diversa. E interessante, secondo me.
“Romanzi facili, semplici, dal punto di vista politico ansiosi di mettersi e di mettere i lettori sempre dalla parte giusta”.
Alludo a una tendenza a fornire una narrativa pedagogica, allineata a valori progressisti. Più che da mancanza di coraggio credo dipenda da un’abitudine idealistica italiana a pensare la letteratura come a qualcosa che sta sempre dalla parte del Bene.
Punta l’indice contro lo stile, “molto spoglio e scarno della scrittura, esempio dell’italiano scritto ma non letterario che sta colonizzando la nostra narrativa”. Ma è sempre lei a rilevare che questi libri nascono per lettori di massa.
Trovo curioso che romanzi rivolti a “lettori di massa” vincano lo Strega, cioè quello che è pur sempre il più prestigioso premio di narrativa che abbiamo in Italia: vuol dire che reputazione culturale e stile masscult o midcult non sono più contrapposti. Naturalmente si può scrivere semplice e molto bene, come dimostrano oggi premi Strega come Starnone o Trevi. Non mi preoccupa la semplicità ma la scrittura sciatta, senza progetto né grazia.
Su M. Il figlio del secolo di Scurati, Strega 2019: “Lingua sbrigativa e prefabbricata, personaggi incatenati allo stereotipo di se stessi”. Si può essere divulgativi senza banalizzare?
Immagino di sì. Ma vorrei sottolineare che la letteratura, almeno per come la intendo io, non coincide con la divulgazione. Sono pratiche discorsive diverse, che possono occasionalmente sovrapporsi ma non dovrebbero identificarsi.
Pollice verso per i romanzi di “nobile intrattenimento”…
Per “nobile intrattenimento” intendo un tipo di narrativa che adotta strategie formali e strutture tipiche dell’arte di consumo e al tempo stesso stili e tecniche tipiche dell’arte più ambiziosa. Per molti va bene così, anzi non notano la differenza; io ci leggo un indebolimento di quello che invece può fare la letteratura al suo meglio: più che intrattenere, far sprofondare il lettore in una crisi conoscitiva.
Si affermano i testi ibridi, la non-fiction (vedi Piccolo o Albinati). Non è una legittima evoluzione?
La non-fiction è una struttura che può servire a opere belle, o mediocri, o brutte: tutto dipende dall’uso che un autore ne fa. Rivela il nostro bisogno di ammantare il finto di vero; forse perché il vero ci sembra sempre più finto. La non fiction o l’autofiction vanno bene se ci aiutano a capire chi siamo, quando sono una scusa per smettere di inventare diventano una scorciatoia anzi un vicolo cieco.
Sostiene che “oggi scrittori non si nasce, si diventa. Con i social si può costruire un personaggio pubblico collegato a un sistema di relazioni”.
Nell’epoca dei social il bello si decide a maggioranza, quindi gli scrittori sono spinti a esibirsi in pubblico, e a farlo con meno mediazioni possibile. I linguaggi artistici si semplificano, si sforzano di essere immediatamente comunicabili e facilmente traducibili, cercano di non offendere nessuno.