Il Messaggero, 20 maggio 2023
Intervista a Monica Zanetti
«Se devo dire la verità non mi rendo conto di quello che ho raggiunto. Mi sono sempre e solo sentita di svolgere il mio lavoro. Non avrei mai creduto di arrivare fin qui». Incoscienza e dedizione sono i due termini che ben si addicono a Lady F40 Monica Zanetti, maranellese – per la precisione di Pozza, una frazione di Maranello – e ferrarista doc. Zanetti è stata la prima donna a far parte del team Ferrari oltre ad essere stata l’unica donna su quattro meccanici ad occuparsi della mitica F40. Il suo è stato a tutti gli effetti un lavoro pioneristico nell’industria automobilistica. A 60 anni, felicemente nonna, è stata insignita a Los Angeles del prestigioso premio “The Helene Awards”.
Come è nato l’amore incondizionato per la Rossa di Maranello? «Da piccolina a casa mia ogni giorno transitavano meccanici della Ferrari, a cominciare da mio zio. Penso avessi 7 o 8 anni quando per la prima volta sono stata a Modena a vedere un circuito e ad osservare le macchine. In quel momento ho sentito qualcosa di particolare, di unico. Ancora adesso mi viene la pelle d’oca se ci ripenso».
In famiglia come reagivano?
«Io dicevo: voglio lavorare con le automobili. A tutti mi rispondevano: per una donna è impossibile, puoi aspirare solo alla segreteria o in amministrazione. Non mi interessava stare in ufficio, ma se fosse stato l’unico modo per entrare, avrei accettato persino quello».
Quando ha cominciato a lavorare in officina?
«Stavo per iniziare la scuola professionale Ipsia di Maranello, ideata da Enzo Ferrari per dare una formazione ad un paese all’epoca di soli contadini, quando arriva una chiamata dell’ufficio del personale Ferrari. Cercavano 3 ragazzi, tra cui una donna: alla Porche e Mercedes cominciavano ad avere donne meccanici e non volevano essere da meno. Ho accettato immediatamente. Ho iniziato nel febbraio del 1979 a 15 anni. Dovevo andare in meccanica ma mi mandano in carrozzeria per un’urgenza. Mi mettono alle porte: ero l’unica donna, le altre erano in amministrazione, in tappezzeria a cucire o alla pulizia delle macchine».
Donna in un mondo maschile, oltretutto di motori
«Dopo sono stata accolta a braccia aperte e mi hanno insegnato il loro mondo, devo tanto a questi uomini. Però all’inizio erano scettici, mi avevano preso sotto gamba. Tra loro commentavano: questa fa la fine delle altre.... Non capivano che il loro atteggiamento mi caricava, dentro di me mi ripetevo: potete fare quello che volete ma io non cedo».
Non ha mai avuto tentennamenti?
«Mi sono messa sotto con impegno e determinazione. Era dura visto che non ti spiegavano niente, senza trascurare che per svolgere determinati compiti serve una certa prestanza fisica, ma volevo farcela e questa è stata la mia forza. Se per imparare una stazione ci si impiegava di media un mese, io la sapevo completare dopo tre giorni».
Ha imparato tutta la catena di montaggio?
«Ogni fase della carrozzeria aveva il suo passaggio. Non potevi mandare avanti una macchina se non era finita la tua parte. Dopo un mese sapevo fare tutte le porte della Ferrari dalla A alla Z. A quel punto sono diventata il jolly, sempre l’unica donna: subentravo agli operai in malattia o in permesso per non interrompere la lavorazione».
Fine anni 70: non era usuale.
«Allora Maranello era un paesino di 7 mila, forse 10 mila abitanti: pochissime donne lavoravano fuori casa».
Qualche ricordo “scomodo”?
«Non esisteva il bagno per le donne. Non avevo problemi ad andare in quello degli uomini, l’importante era che non entrassero: mettevo fuori qualcuno a fare la guardia».
Il passaggio alla mitica “F40” quando è avvenuto?
«A 24 anni, era il 1987. Dell’F40 dovevo seguire il montaggio e l’assemblaggio delle parti di carrozzeria, interne ed esterne. La Ferrari F40 venne chiamata così perché nel 1987 ricorrevano i quarant’anni dalla prima macchina da corsa e fu l’ultima che vide in vita Enzo Ferrari, progettata dal Drake e dall’ingegnere Materazzi».
Se ripensa a Monica 15enne cosa vede?
«Una malata di macchine, che non si fermava davanti a niente. Ogni cosa per me era un’esperienza nuova, una sfida».
Nel 2017 con la sua socia Gemma Provenzano ha dato vita alla “Scuderia Bella Epoque”, dove si restaurano vetture d’epoca sia stradali che da competizione. Qualcosa è cambiato?
«Sono la stessa, amo sempre quello che faccio, anche se paradossalmente è più difficile e più dura: oggi mi accorgo ancora di più che è un mondo prettamente maschile».
Che tipo era Enzo Ferrari?
«Quando apriva bocca, guai a fiatare. L’ho sempre chiamato il commendatore, ma qualche collega stretto lo chiamava ingegnere. La sua frase era: “Non si può descrivere la passione, la si può solo vivere”. Ebbene io ne sono la dimostrazione».