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 2023  maggio 20 Sabato calendario

Intervista a Michela Murgia

Michela Murgia, luminosa, si racconta al vicedirettore Andrea Malaguti allo spazio La Stampa al Salone del libro. Per lei, folla e applausi. Il suo romanzo, Le tre ciotole (Mondadori), parla della capacità di reagire alle avversità che ci travolgono, del cambiamento e delle relazioni.
Un libro speciale, scritto da una donna speciale…
«Anche meno, dai. Così sembra un’opera postuma, mi fa sentire un monumento, contemporaneamente viva e morta».
L’incipit del libro è più duro, cito: «Lei ha una nuova formazione cellulare sul rene». Quando è accaduto?
«All’inizio del 2022, dopo il ricovero in terapia intensiva».
Cosa ha significato quella frase?
«Nulla. Il mio oncologo è un genio, non ha mai pronunciato la parola “carcinoma”, ma mi ha detto: “È così creativa che si è fabbricata una colonia di cellule in corpo, e queste per sopravvivere vanno a prendere l’energia dai suoi polmoni. Noi le chiamiamo metastasi però lei può considerarle come dei pozzi in Iraq"».
La geopolitica del cancro...
«Così ho capito che non sono posseduta da un alieno ma ciò che mi è accaduto appartiene alla mia complessità».
Ma ci sarà stato un momento in cui ha preso atto...
«In realtà ero sotto morfina, qualsiasi cosa mi dicevano mi sembrava bellissima».
Fa come Romina Power? Albano pare l’abbia lasciata perché fumava le canne…
«Ma quelle sono come la birra. Io parlo di roba seria (legale eh). In ogni caso, a un certo punto ho capito che la situazione era grave, ma potevo gestirla».
Come?
«Il cancro è qualcosa che ho prodotto io, quindi posso stringerci un patto, anche se parto svantaggiata: si chiama cura».
A che stadio è?
«Davvero vogliamo fare l’anamnesi del cancro?»
Si, vogliamo. L’ha fatta anche lei, nel libro, parlando di “quarto stadio”...
«Io ho preso spunto dalla mia esperienza, comune a molte altre persone. Mi sono affidata a una nuova cura, che in Italia si sta sperimentando solo da un anno. Non so quanto tempo ho ancora, ma so che a un certo punto finirà. Non mi dispero perché non è nella mia indole».
Ha mai pensato “perché proprio a me”?
«No, ma ho pensato: perché non a me? Ho chiesto al mio medico: dove ho sbagliato? Lui mi ha spiegato che il cancro ha radici nell’infanzia. Il sistema immunitario a un certo punto non l’ha più tenuto a bada ed ora facciamo un pezzo di strada assieme».
Ha paura?
«Di lui no».
Del dolore?
«Moltissimo».
Cosa c’è dentro Le Tre ciotole?
«Riso, pollo, pesce, verdure. La donna nel libro non riusciva più a mangiare, pensava per colpa di un abbandono, in realtà per il rigetto dell’educazione subita dalla sua famiglia disfunzionale. Attraverso le regole della tavola le avevano inculcato violenza e obbedienza. Supera il trauma grazie alle tre ciotole, cambiando le regole: può finire il cibo in un giorno, ma quando e come vuole lei».
È autobiografico?
«L’ho fatto anch’io per un periodo, ma io vomitavo per la malattia».
Effetti?
«Sulla linea nessuno o sarei una Silfide, ma mi ha fatto bene».
E la sua famiglia com’era?
«Disfunzionale. Per questo mi sono costruita negli anni una famiglia polifunzionale».
Cos’è una famiglia queer?
«Quella dove i ruoli non sono definiti, dove le responsabilità sono fluide. Su questo l’Italia è indietro, rispetto alla Germania ad esempio. Nel febbraio 2022 una coalizione di sinistra (da noi sono sempre più rare) ha presentato una proposta di legge per cui in caso di emergenza si autorizza una “comunità di corresponsabilità” dove più persone, non legate sentimentalmente, decidono di prendersi in carico gli uni degli altri. Perché qui non è possibile?»
Perché si ragiona ancora sul concetto di coppia?
«Sì, e su quello di fedeltà, ma a me interessa l’affidabilità. In realtà già pensiamo e viviamo le comunità queer, ma manca la tutela del diritto e della legge. Io mi sto sposando perché a un certo punto lo Stato vorrà che prenda delle decisioni e se non sarò in grado, senza un marito (che amo, ovviamente), non avrei congiunti che possano prenderle per me».
Idee molto lontane da quelle di questo governo...
«Vuol dire un governo che porta via i figli alle madri?».
In che senso?
«Fino a ieri io e mia moglie potevamo avere una bambina assieme, ora un atto di legge ha deciso che solo chi ha dato l’ovulo può chiamarla figlia, l’altra mamma è un’estranea».
Un governo che lei definisce fascista...
«Confermo e ribadisco».
In che modo si manifesta?
«Nel controllo dei corpi, della libertà personale, nella discriminazione delle comunità già discriminate. Siamo abituati ai fascismi nati da situazioni non democratiche, regni, dittature, e crediamo che la democrazia ci protegga. C’è un passaggio invece, che i sociologi chiamano democratura: è l’autoritarismo che passa attraverso i codici della democrazia. Il risultato finale è lo stesso».
Il 25 settembre però in Italia ci sono state le elezioni, non un colpo di stato: gli italiani non capiscono?
«Credo piuttosto che l’Italia non abbia fatto davvero i conti con il fascismo. In Germania il processo di Norimberga ha trasformato le responsabilità individuali in responsabilità collettive. Noi abbiamo avuto piazzale Loreto, l’incipit peggiore per una democrazia: non c’è stata la presa di coscienza. Ecco perché oggi ci sembra che dare del fascista sia un problema legale. Non riconosciamo più il collegamento tra la parola e i comportamenti. Gli intellettuali possono aiutarci a farlo».
A proposito del pensiero unico, questo Salone è stato inaugurato dal presidente del Senato La Russa e dal ministro Sangiuliano...
«Il ministro ha appena perso la causa contro Roberto Saviano che l’aveva accusato di essere un galoppino di Cosentino, il referente dei casalesi al Governo. Il giudice scrive: “Non si può dire che questo sia falso”. Prima del pensiero c’è una questione etica, cominciamo a non scegliere ministri che abbiano padrini o legami con la malavita».
Quando prende una posizione si scatenano orde di haters: si è chiesta se sia lei a sbagliare?
«All’inizio ho pensato fossi troppo polarizzante, ora sono convinta che il dibattito sia talmente basso in Italia che ogni pensiero differente è considerato spiacevole. Per non parlare di questioni femminili».
Ovvero?
«Si parla di zuffa tra gatte. Se lo scontro è tra uomini invece è un podcast. Ma la democrazia si fonda sul conflitto, se non lo regge diventa fragile».
Qual è il ruolo della sua Sardegna nel romanzo?
«È dominante, anche se il libro è ambientato a Trastevere, dove vivo. È legata a un racconto metaforizzato sulla servitù militare».
C’è una pandemia, un generale che se ne occupa, una donna di servizio: ci torna in mente il generale Figliuolo, con cui è entrata in polemica...
«Se nella difficoltà la politica non sa cosa fare e si affida all’esercito, è segno quanto meno di una deficienza, di un’incapacità. Il generale in divisa con le mostrine, il virus come nemico, il Paese in trincea: questa narrazione della pandemia come una guerra ci ha messo angoscia».
Lei studia coreano: perché questa passione?
«È nata per caso guardando una serie Netflix e scoprendo la band dei Bts: poi Jhumpa Lahiri mi ha spiegato che gli scrittori postcoloniali cercano un terzo spazio, ed era quello che stava accadendo a me. Questa lingua ha 21 suoni vocali e non ha generi, mi ha spiazzata, io che ho fatto una lotta sulla lingua italiana e la sua genderizzazione».
E sfrega pollice e indice davanti al pubblico: «In Italia questo gesto significa “soldi”, in coreano è il cuore del “vi voglio bene"». —