Robinson, 20 maggio 2023
Intervista a Pierdomenico Baccalario
L’infanzia in Piemonte, tra il bosco vicino casa e i libri del papà notaio
L’amore per i giochi di ruolo come molla per inventare storie. Gli studi in legge poi il successo con le avventure per i più giovani. E la lezione dell’amico Vialli
Uno scrittore per ragazzi è un “animale” particolare. Non di quelli, beninteso lodevoli, che si dedicano alla narrativa con sguardo talvolta pensoso, alto, introspettivo. Allo scrittore per ragazzi sorridono spesso gli occhi.
La sua mente spensierata è abitata da giochi e da avventure; la sua storia segnata da gesti semplici e da parole dirette. Può anche avere sessanta o settant’anni ma ne dimostrerà quindici. Non è giovanilismo, quell’orrendo adeguarsi a un’età che non è più la propria. No. Direi piuttosto che è come se il tempo della vita non avesse più barriere né codici di ingresso. Ma solo la parola incanto. Non è questo che ci hano trasmesso la Rowling con la sua saga magica, o Tolkien con i suoi elfi e battaglie?
Ritrovo un po’ di avventura e di fantastico nelle storie che Pierdomenico Baccalario scrive ormai da tanti anni. Ha cominciato sedicenne e ora che di anni ne ha poco meno di cinquanta, ci consegna un ambizioso puzzle dove la trama del romanzo è costruita come fosse un gioco di ruolo. Baccalario è uomo spiritoso e svelto e confesso che non sapevo che il suo maggior successo editoriale avesse venduto cinque milioni di copie nel mondo. Non è un semplice bestseller, ma una montagna di copie di cui a stento si intravede la vetta.
Hai venduto meno di Umberto Eco ma molto di più dei nostri apprezzati scrittori. Eppure non sei altrettanto famoso.
«Non mi sorprende, noi scrittori per ragazzi siamo trattati come ragazzi appunto. Gente che si farà. Non veniamo presi sul serio. Accade soprattutto in Italia. Espiace dirlo: se l’editoria oggi può tirare un sospiro di sollievo è perché contribuiamo alla sua tenuta. Ma alla fine mi dico: va bene così. Non ho frustrazioni, non maledico il destino cinico e baro. Faccio la mia parte. Da scrittore che pensa agli altri possibili scrittori».
Cosa intendi?
«Forse non mi bastava scrivere storie per adolescenti, storie di personaggi forniti di energia unica, volevo che a scriverle fossero anche altri. Ho creato una squadra, con sede a Londra, che trasferirò a Torino dove nel frattempo sono tornato a vivere. Si tratta di un’”agenzia” che immagina storie e le racconta».
Possono convivere lo scrittore individuale e collettivo?
«Perché no? Mi piace condividere esperienze narrative. Fare gruppo. L’attenzione all’altro mi è in buona parte arrivata dalla lunga frequentazione nei “giochi di ruolo”».
Lo è al punto che il tuo nuovo romanzo, “Il grande manca”, è basato proprio su questo tipo di schema.
«Mi affascina pensare e agire dentro a un gioco di ruolo. Sentire come l’immaginazione e la conoscenza sviluppano una storia».
Come funziona un gioco di ruolo?
«C’è un gruppo di giocatori, di solito quattro o cinque, che interpretano ruoli ricavati da un film o da un romanzo. C’è un “master” che svolge la funzione di narratore, stabilisce le regole, crea l’ambientazione e assegna le parti. L’andamento del gioco si basa sulla fantasia dei personaggi che faranno crescere la storia, sulle sfide che a volte si risolvono con il lancio dei dadi, il cui esito è compreso tra il fallimento e il successo dell’avventura».
È come una riedizione dei Ching?
«Un po’ lo ricorda. Ma l’oracolo è tutto nella interpretazione che riesce a dare il master. È lui il regista occulto e palese dell’avventura che il gioco di ruolo innesta».
Questo schema lo hai adottato nel tuo nuovo romanzo.
«Ho sviluppato la storia del romanzo con un master, protagonista occulto, e un gruppo di amici che si impegna in un’avventura libresca dai risvolti misteriosi».
Una delle singolarità del romanzo è che inizia dal trentatreesimo capitolo e va a decrescere concludendosi con il primo. Non rischi di confondere le idee al lettore?
«È un gioco e la struttura che ho dato al libro risponde a una domanda precisa: quanti capitoli mancano alla fine della storia. Quindi era giusto cominciare dall’ultimo. E poi, in omaggio al gioco di ruolo, non so quasi mai come andrà a finire una storia. Ma so che da quella fine potrebbe inziarne un’altra».
Hai cominciato a scrivere molto presto.
«Vengo dalla provincia piemontese, sono nato ad Acqui Terme, e da adolescente ho cominciato a interessarmi ai giochi di ruolo. Due in particolare: “Dungeons & Dragons” e successivamente “Il signore degli anelli”. Ad Acqui non c’era una libreria in grado di fornire questi giochi. Perciò decisi a 16 anni di prendere il treno, andare a Genova per incontrare i proprietari di una libreria specializzata. Gli dissi che sapevo scrivere, portai delle prove narrative. Mi proposero di scrivere per loro e che mi avrebbero compensato con dei giochi di ruolo. È iniziata così la mia avventura di scrittore».
I tuoi approvavano?
«Vengo da una famiglia di notai. Come dire? Gente abituata alla codificazione, alle norme, agli equilibri catastali, alle scritture private. Io stesso feci il concorso senza vincerlo. Non desideravo una carriera per la quale non mi sentivo tagliato. Invece di avvertire il senso di fallimento e vergogna sentivo crescere l’antinotaio che era in me, il ribelle a tutte le scartoffie che avrebbero minacciato la mia vita immaginaria».
Ti sei sottratto al destino familiare.
«Non è stato facile. La mia prima moglie era figlia di notaio. Rischiavo di essere risucchiato in quel mondo».
Hai perciò cancellato quella parte della tua vita.
«No, ho solo cambiato direzione. Ma sono grato ai miei studi. La legge mi ha dato struttura. In fondo sono arrivato alla conclusione che non scrivo libri perché sono un artista, scrivo perché è un mestiere artigianale che amo. Però, diversamente dal notaio, la mia è una scrittura antistituzionale. A volte immagino di stare all’interno di una bottega rinascimentale, con un gruppo di amici, dove ognuno ha un ruolo creativo».
Qual è la differenza tra un autore singolo e uno scrittore collettivo?
«In quest’ultimo non c’è narcisismo, né quel senso di superiorità che rende spesso il singolo autore una figura inavvicinabile. Ho imparato l’importanza fondamentale della squadra frequentando Gianluca Vialli e collaborando con lui».
Ci hai scritto un libro.
«Goalè stata un’esperienza importante e tutto è nato dal fatto che Vialli voleva dare una forma ai suoi pensieri, come se cercasse qualcuno che lo allenasse al nuovo obiettivo che si era prefissato. Vivendo come lui in Inghilterra fui contatto dall’editore e ricordo l’emozione provata al nostro primo incontro».
Era già malato?
«Lo scoprii verso la fine. Quando mi disse, vorrei che qualcuno possa un giorno dire: grazie a te ho continuato a sperare. Mi rivelò della malattia, il cancro che lo aveva ghermito. Con Gianluca ho scoperto cosa significhi toccare i diversi momenti della vita: tornare con la memoria alla gioventù, all’ottimismo, ma anche alla religione e alla scaramanzia. Attraverso di lui ho compreso cosa voglia dire avere degli amici veri. Ha vissuto la malattia con grandissima dignità e alla fine la cosa straordinaria, fu che volle rivedere riunita la squadra che con lui e Mancini aveva vinto lo scudetto.
Mi chiese di aiutarlo a scriverne la storia. E venne fuoriLa bella stagione, che divenne anche un film. Quel gesto di tornare, prima di morire, dai suoi compagni – nella consapevolezza che non vinci o perdi da solo, ma insieme alla squadra – è stato il suo testamento pubblico. In questo mi piacerebbe somigliargli».
In cosa esattamente?
«Nel fatto che puoi essere un autore unico dentro a un collettivo. Io non scrivo “con”. Scrivo e basta. Però mi piace lavorare con altre persone. Quando ho scrittoIl grande manca ho scelto i protagonisti pensando ai miei amici dell’adolescenza. Alcuni di loro sono diventati scrittori e si vede che i giochi di ruolo hanno fatto bene».
Come è stata la tua infanzia?
«Vivevo tra la casa e il bosco, avevo tre cani e non sono mai stato bocciato. In prima elementare la maestra era mia madre. Voleva che in aula la chiamassi “signora maestra”. Credo che sia da lì che ho sviluppato una certa schizofrenia».
Nel senso?
«Non posso non immaginare la netta separazione tra il principio dell’autorità e quello del piacere, che ho cercato, ad esempio, nei libri. Mio padre, grande collezionista in particolare di biografie, possedeva più di 30 mila volumi».
Non male per un notaio.
«In realtà è l’unico che in famiglia non esercitava.
Aiutava lo studio ma i suoi interessi si legavano ai suoi piaceri: fare vino, soprattutto il Dolcetto, e raccogliere biografie».
Una forma di mania.
«Che è riuscito a trasmettermi. Come vedi mi occupo di libri. Oltretutto colleziono solo libri che compro sulle bancarelle».
Sei uno che vende molto. Il tuo successo da cinque milioni di copie come è nato?
«Per caso. Il primo libro della saga di Ulysses Moore lo scrissi in una settimana, uscì dal Battello a Vapore, l’editore con cui avevo fatto il mio esordio a 22 anni.
Partecipai a un concorso di storie e lo vinsi. Fu a quel punto che nacque la mia storia di scrittore».
Ma Ulysses more?
«Non avrei mai immaginato che avrebbe venduto così tanto. Pensa che alla fiera del libro di Varsavia mi avviavo verso il mio stand e in quello vicino c’era Jeffrey Deaver. Fuori una fila chilometrica di ragazzini. Pensavo fossero lì per il famoso scrittore americano. Scoprii che volevano il mio autografo».
Ho letto che sei tradotto in 22 lingue.
«È un piccolo record. Ma pensi che importi qualcosa?».
Intendi in Italia?
«Siamo un paese per vecchi e chi scrive per ragazzi è considerato un autore di serie B».
Per questo sei emigrato in Inghilterra?
«Ci sono andato perché mi sono risposato e mia moglie insegnava lassù. Da un anno siamo tornati in Italia».
Cosa deve avere uno scrittore per ragazzi?
«Molta fantasia, e una miscela di malizia e candore.
Non è scontato scrivere per questa fascia di età. Devi non perdere la complessità della vita adottando la semplicità della lingua. È un modo anche per fare della buona divulgazione. Penso aIl manuale delle 50 avventure da vivere prima dei 13 anni che è statovenduto in 25 paesi o aIl manuale delle 50 piccole rivoluzioni, una serie ideata con Tommaso Percivale e Federico Taddia. E poi c’è la serie delle “15 domande”, libri che spiegano in modo chiaro il funzionamento del cervello, dei soldi, della lingua, del mondo».
Ti senti anche uno scrittore pedagogico?
«La parola “pedagogico” mi lascia perplesso. C’è stata soprattutto nel passato una pedagogia applicata alla narrativa. Ne fu maestro Gianni Rodari. Ma oggi non puoi metterti a rifare le sue filastrocche.
Un nativo digitale difficilmente capirebbe quella forma espressiva. Quanto a me sono uno specialista di nulla, ma mi ritengo fortunato perché ho la sensibilità artigiana di scrivere. Forse ho scritto perfino troppo. Ma lo considero un peccato veniale.
In fondo non so fare altro nella vita. A volte mi dico: sei mai cresciuto veramente? E capisco che è una domanda senza una vera risposta».
Perché non l’hai trovata o perché non si dà?
«È come cercare il Graal: la tua età dell’oro. Il campetto di calcio che non hai più, le corse nel bosco col cuore che ti batte, il vecchio odore dei libri di mio padre. Le prime letture. Se ci penso risvegliano quello che fui allora. Ed è una sensazione piacevole senza nostalgie. Come una partenza per raccontare nuove storie».