la Repubblica, 20 maggio 2023
Intervista Zerocalcare
Non lo vedi arrivare, Zerocalcare. Un attimo prima è lì che snocciola aneddoti, disegna fumetti con le parole, racconta del viaggio in Iraq da cui è nato il libro “No sleep till Shengal” e di Cesare, un nuovo personaggio della sua prossima serie su Netflix, e un attimo dopo, senza preavviso, la conversazione prende direzioni inaspettate: il 41 bis, le carceri, l’individualismo che è una finestra che si affaccia sulla mitomania (copyright: Zerocalcare), il sogno del confederalismo democratico curdo, il fascismo, l’egemonia culturale. E il governo Meloni, certamente. Coi suoi ministri che rivendicano con orgoglio di avere un busto di Mussolini a casa e discettano di sostituzione etnica. «Non sono neanche stupito», dice il quasi quarantenneMichele Rech, ospite di un’affollatissima ArenaRobinson, lo stand di Repubblica al Salone del Libro di Torino. «La questione della sostituzione etnica va avanti da tempo. Chi arriva da quella tradizione politica di destra radicale ne parla da anni, solo che prima era fuori dai radar…».
Ora è al governo.
«E infatti ora è diverso. Basta vedere quante presentazioni di libri che parlano del Piano Kalergi vengono fatte nei festival della letteratura, a Torino, a Roma… Il piano Kalergi è esattamente quella roba lì, l’idea che dei poteri forti programmino l’arrivo dei migranti per sostituire i popoli europei. Però poi non arrivano mai in fondo al ragionamento…».
Cosa vuole dire?
«Che se fossero sinceri, e dicessero che l’italiano per loro può essere soltanto uno con legami di sangue e di pelle bianca almeno giocherebbero a carte scoperte. E invece rimangono sempre sottotraccia».
La preoccupa la corsa del governo Meloni a occupare le agenzie culturali di questo Paese?
«Non particolarmente, perché ho la fortuna di vivere scrivendo e vendendo libri, non dipendo dalla benevolenza del governo di turno. Tuttavia, questa ossessione per l’egemonia culturale da riconquistare è il terreno su cui sono più pronti a lottare. A leggere chi era invitato agli Stati generali della cultura a Roma, sotto l’egida del ministro Sangiuliano, si capisce quale sia l’obiettivo. Difficile che questo governo possa uscire dall’Alleanza atlantica oppure rovesciare la politica economicadell’Italia, ma sul terreno della cultura hanno un personale che da 80 anni sta in panchina.
Gruppi musicali, filosofi, scrittori che per me sono aberranti ma che però ci sono e sono seguiti».
A chi sta pensando?
«Il nome di punta che sono riusciti a tirare fuori per la loro riscossa culturale al Salone di Torino è Alain De Benoist, considerato un faro dai neonazisti europei».
Cambia il vento politico e cambia la Rai, cambiano i festival, cambia il mood della cultura dominante. Non è la prima volta che accade, o no?
«È vero che in tutti questi anni iposti in un certo ambiente erano occupati spesso da persone che guardavano allo schieramento politico di sinistra, però non hanno determinato un’egemonia culturale, si sono fatti largamente i cazzi loro…la vittoria del centrodestra alle ultime elezioni dimostra quale sia veramente il sentimento dominante in Italia».
La sinistra italiana ha colpe?
«Non è riuscita ad avvicinare le persone che si riconoscono in certi ideali, trasmettendo loro un senso di smarrimento e di sfiducia verso la capacità della sinistra di prendersi in carico le questioni che riguardano la società».
Il suo ultimo libro racconta del tentativo degli ezidi di Shengal (in arabo Sinjar, ndr) di rivendicare l’autonomia dall’Iraq creando una società basata sugli ideali del confederalismo democratico.
Come è nato il progetto?
«Shengal è stato il teatro di un massacro dell’Isis nel 2014, con migliaia di morti e donne violentate. Quando sono partito, nell’estate del 2021, stava per scadere l’ultimatum del governo iracheno, contrario all’autonomia. Dall’altra parte c’era la Turchia che attaccava gli Ezidi colpevoli, ai loro occhi, di essere amici dei curdi. Mi hanno chiamato i curdi per far conoscere cosa stava accadendo in un momento per loro cruciale».
E Il libro ha avutol’effetto che speravano?
«Onestamente, credo di no. Ha venduto 140 mila copie, quindi 140 mila persone hanno saputo, ma non ha avuto il livello di penetrazione nel dibattito pubblico di Kobane Calling. Sa perché? Ce li siamo dimenticati, i curdi.
Ci facevano comodo quando erano i primi avversari dell’Isis, allora erano degli eroi, adesso che l’Occidente pensa, sbagliando, che il rischio Isis sia finito, li abbiamo abbandonati».
Un altro caso a cui si è appassionato è l’anarchico Alfredo Cospito detenuto al regime del 41 bis.
«Più che altro ancora oggi c’è chi mi scrive che sono amico della mafia, perché critico il carcere duro e l’applicazione a Cospito, che, ricordo, in quel processo non è stato condannato per fatti di sangue ma per degli ordigni nei cassonetti che non hanno ferito nessuno. Non mi ricordo quale tema ha spodestato gli anarchici, forse gli orsi del Trentino. Comunque, di carceri si parla troppo poco: non lo so come si fa una società senza carcere però le alternative ci sono, ma vi accedono solo le persone che hanno i soldi. Ci dovremmo porre il problema di come sia possibile che a parità di reato la differenza tra lo stare dentro o fuori una cella sia la classe sociale».