Corriere della Sera, 20 maggio 2023
Intervista a Ricky Albertosi
Ricky Albertosi aspetta l’estate in Versilia, parando i tiri del nipotino e i colpi del cuore: «Ho superato un secondo infarto pochi mesi fa».
Si mette ancora in porta?
«Sì, per poi sentirmi dire “ma nonno non ne pari una, che portiere sei!?”. Tra poco però gli mostrerò qualche video di quello che ho fatto».
Ha ricordi della guerra?
«Solo il flash degli aerei sopra Pontremoli, andavano a bombardare chissà dove».
Tifava Grande Torino?
«Sì, mio padre mi portò a Milan-Torino: che fascino».
Papà Cecco era maestro e portiere: lei ha studiato fino al terzo anno di magistrali poi l’altra passione ha vinto.
«Me l’ha fatta venire lui, mi allenava nell’intervallo delle sue partite. Avevo 7 anni e non sono più uscito fino ai 43».
Il suo debutto coi grandi arriva a 15 anni, a La Spezia.
«Il titolare era un marinaio, che doveva imbarcarsi. Sembra l’inizio di un romanzo d’avventura, ma andò così: da lì ho preso il via, abbiamo vinto il campionato, è arrivata la Nazionale juniores e nel 1958 abbiamo vinto l’Europeo con Corso, Trapattoni, Galeone».
Sandro Mazzola ripeteva che «il segreto di Albertosi è che si allena poco». Solo perfidia o c’era del vero?
«Perfidia: lui era già in spogliatoio quando facevo l’allenamento vero, specifico».
Per Rocco era «il migliore al mondo, anche se ha tutto quello che odio in un calciatore: fuma, beve, piace alle donne, gioca a carte, punta sui cavalli». Sintesi efficace?
«Sì, è vero, sono sempre stato così, non ho mai nascosto niente. A differenza di altri facevo tutto alla luce del sole e in campo alla domenica facevo il mio dovere».
Liedholm al sabato le chiedeva se preferiva l’ippodromo o il cinema con la squadra: mai accontentato?
«Mai. All’ippodromo passavo un paio di ore in tranquillità. La mia fortuna erano allenatori come lui o Scopigno che mi capivano».
Nel ’76 il Corriere le chiese: «Quante volte fa l’amore alla settimana?». E lei: «Se lo dico, a Milanello scoppia un casino!». Un po’ ci marciava attorno al suo personaggio?
«Certamente. Non facevo l’amore ogni giorno, ma due-tre volte alla settimana sì».
Come portiere è stato più genio o più sregolatezza?
«Forse più genio. Poi faceva colpo dire che fumavo quaranta sigarette al giorno anche se non era vero, che andassi sempre all’ippodromo o che andassi a letto tardi: facevo tutto, perché mi sentivo bene, ma non è che giocassi male perché non facevo una vita consona allo sport. Dipendeva anche dal mio fisico».
La Nord Corea nel 1966 è la cosa che le brucia di più?
«Sì e mi brucia molto, perché ho fatto 4 campionati del mondo e quella era una grande squadra. Fu una partita incredibile, nella quale ci bastava il pari: non abbiamo sottovalutato la Corea, ma abbiamo sbagliato dieci gol».
A Messico ’70 era in stanza con Riva. Si annoiava?
«Al contrario. Nel privato Gigi è un bel chiacchierone, sa stare bene in compagnia. È un timido, ma se entra in confidenza è un’altra persona».
Per Rivera le parole che lei gli disse dopo il 3-3 di Müller contro la Germania nella «Partita del secolo» sono impubblicabili. Conferma?
«Direi molto impubblicabili. L’ho infamato perché non doveva starci lui su quel palo. Battendo la testa sul montante disse “ora posso solo andare a far gol”. E fu di parola».
Come mai invece che all’Inter si ritrovò al Cagliari?
«Bisognerebbe chiederlo a qualche giocatore di quell’Inter: per Allodi era già fatta».
In Sardegna tra l’altro lei non ci voleva andare.
«È vero, però non potevi rifiutarti. Ma è stata una fortuna, non solo per lo scudetto».
Il mitico gol di testa di Pelé nel 1970 era parabile?
«Lo è se mi aspetto c he Burgnich non la prenda: lui saltava benissimo e quando l’ho visto scendere ho pensato che Pelé non l’avrebbe più colpita. Invece è rimasto in sospensione, ha dato forza al pallone e l’ha messo sul primo palo, dove un portiere raramente deve prendere gol: ho peccato di troppa fiducia in Burgnich».
Zenga è stato il suo erede?
«Sì, era un po’ irregolare ed è stato un grande portiere».
È giusto dire che Albertosi fu un rivoluzionario, mentre Zoff un grande classico?
«È una visione corretta, perché ho anticipato le cose: giocavo molto fuori dai pali e anche molto coi piedi, anche perché in allenamento stavo quasi sempre in attacco. In C2 facevo l’allenatore-giocatore, volevo fare gol in partitella e il portiere di riserva mi è crollato sulla gamba. Sono stato costretto a ritirarmi».
Al Milan si fece crescere i baffi per la moda del tempo?
«No, c’è una storia: nel 1975 ho conosciuto Elisabetta, che mi chiese perché non me li facevo crescere. Oggi ho gli stessi baffi e la stessa donna».
Papa Wojtyla le parlò da portiere a portiere?
«Sì, in udienza dopo la vittoria dello scudetto mi disse che gli piaceva tanto giocare in porta da ragazzo».
Lei crede nell’aldilà?
«Sì, sono religioso».
Nel 1978 Bearzot non la portò come terzo perché Zoff la soffriva. E lei criticò Dino per i gol con l’Olanda. A lungo lui la evitò, offeso. Quando avete fatto pace?
«Fu sulle scale di un hotel: una scena western, senza le pistole. Ci siamo abbracciati».
Quando Zoff alzò la Coppa da capitano lei era squalificato per il calcioscommesse. Che sentimento provò?
«Sono stato contentissimo, specie per lui: un grandissimo, che ha meritato tutto».
Il trionfo portò l’amnistia.
«E andai all’Elpidiense».
Lei giocò sulla vittoria della propria squadra: di solito non è il contrario?
«Sì e tra l’altro avevo riportato tutto al mio presidente: sono stato un ingenuo, non avrei dovuto parlare con questo amico che mi ha contattato. Abbiamo vinto con la Lazio una partita regolare, feci due parate eccezionali. Io ho sempre giocato per vincere, perché sono un giocatore nato».
In carcere quanto restò?
«Una quindicina di giorni».
Disse: «Mai mangiati bucatini all’amatriciana così buoni». Altra provocazione?
«No, è vero: c’era un carcerato che li cucinava benissimo. Eravamo rinchiusi, ma liberi e in giro tutto il giorno».
All’Elpidiense allenava Alberto. Che papà è stato?
«Finché sono stato con la prima moglie credo un buonissimo papà. Credo anche dopo, ma ero lontano: sono mancato a lui e a Silvia, come loro a me. Ho avuto una figlia anche da Elisabetta, Alice. E ho quattro nipoti».
Il calcio oggi la diverte?
«No, a parte il Napoli».
Nel 2004 ebbe un infarto all’ippodromo: la passione per i cavalli le salvò la vita?
«La mia fortuna sono stati i fantini: uno mi ha tirato fuori la lingua, l’altro mi ha fatto il massaggio cardiaco, in attesa dell’ambulanza. Così mi sono salvato senza danni permanenti: ma i dottori non sapevano come sarebbe finita».
I fantini la salvarono, ma chissà quante volte li avrà maledetti per i soldi persi.
«No, erano tutti amici. E poi quando si scommette si ricordano solo le vittorie».