Corriere della Sera, 20 maggio 2023
Nella clinica dove vengono curate le anime dei soldati
«In guerra non esistono soldati che non siano rimasti feriti. Ci sono le cicatrici della carne, sì. Ma anche l’anima si dilania». Regione di Kharkiv, in un vecchio sanatorio dell’epoca sovietica, nel parco, tra tulipani e statue che raffigurano le fiabe, come la zucca di Cenerentola o la quercia con la catena d’oro di «Ruslan e Ljudmila», novella scritta da Aleksandr Puskin, il soldato incursore Oleksander fuma una sigaretta dopo l’altra. È reduce del fronte di Kherson. Un frammento gli è entrato nella spalla. «Ma il problema non è solo quello. Oleksander si sente colpevole. Colpevole perché lui è vivo e il suo compagno di brigata invece è morto».
Igor Prykhodko, professore all’Accademia nazionale della Guardia nazionale ucraina, è il capo di un team di 10 psicologi che, da metà luglio a oggi, ha aiutato oltre duemila soldati ucraini a superare la sindrome da stress post traumatico. Quando Oleksander arriva al centro è accecato dall’ira. Risponde male a tutti, strappa il foglio dei test che gli psicologi provano a somministrargli. È furioso. Poi, con il passare dei giorni, si calma. E inizia a raccontare. «Eravamo sul fronte di Kherson l’ottobre scorso. Io e il mio amico. Lui era più alto di me, per quello l’hanno scelto per mandarlo in azione. Ed è morto. Ma se io fossi stato più alto, lui sarebbe ancora vivo».
Per mesi Oleksander non riesce a fare pace con sé stesso, ancora oggi non riesce a dire il nome del suo compagno. «Qui la chiamiamo la sindrome dei sopravvissuti», sottolinea Prykhodko. I sintomi, oltre all’ira, sono deficit di memoria, insonnia, dimagrimento drastico, disturbi del sonno. E c’è chi arriva a tentare il suicidio. «Abbiamo aiutato Oleksander a scrivere una lettera al suo amico morto in cui gli spiegava come si sentiva e gli parlava dei momenti felici trascorsi insieme, è stato un modo per chiedere perdono».
Il programma del centro di riabilitazione nasce dall’idea di un veterano ucraino su modello di quello utilizzato per i soldati Nato in Afghanistan e in Iraq. E ha una duplice funzione: rimettere in sesto i militari dal punto di vista psicofisico ma soprattutto metterli nelle condizioni di tornare a combattere. «Può sembrare crudele ma abbiamo la necessità di rimandare i nostri uomini al fronte. Se non lo facciamo perdiamo la guerra», sospira Prykhodko. Dopo un primo screening, gli ospiti del centro iniziano sette giorni di trattamenti che prevedono diverse attività, dall’aromaterapia alla cromoterapia, passando per l’elettrostimolazione, la piscina e la ginnastica dolce. «Può sembrare una spa. Ma è molto di più».
Chiusi in una stanza illuminata dalla luce viola, Oleksander e un altro gruppo di militari se ne stanno a occhi chiusi. Sulla parete dietro di loro, su una tappezzeria anni ‘80, c’è ritratta una foresta. Nell’aria aleggia odore di pino. Oleksej parla piano. È uno dei sopravvissuti del fronte più sanguinoso, quello di Bakhmut. «Quello che non riesco a togliermi dalla testa è l’odore di carne bruciata, dei compagni ustionati. Mi è rimasto come appiccicato addosso. Ma io sono qui ora, io sto bene, sono loro a dover resistere nel fango e nella merda». Oleskej ha poco meno di trent’anni. Prima della guerra faceva l’operaio. Poi si è arruolato volontario. Ma ora vorrebbe non averlo mai fatto.
La rabbia e il perdono
Eravamo insieme sul fronte di Kherson l’ottobre scorso, io e il mio amico: lui era più alto di me, per quello l’hanno mandato in azione. Ed è morto Se io fossi stato più alto, lui sarebbe ancora vivo
«Oltre al senso di colpa per i compagni, molti di loro stanno male per aver ucciso qualcuno». Maksim Bayda è uno degli psicologi del centro che meglio conosce i sintomi del Ptsd, la sindrome da stress post traumatico: è maggiore delle forze armate ucraine ed è stato sul campo. «Quando parlano di quello che hanno fatto in battaglia usano la parola omicidio». Maksim segue Oleksander e Oleksej mentre entrano in piscina.
L’acqua è calda per permettere loro di rilassare i muscoli e in un punto della vasca un vecchio tubo soffia fuori aria creando una specie di idromassaggio. «Abbiamo visto per la prima volta gli effetti del disturbo da stress post-traumatico sui nostri soldati nel 2014. All’epoca molti non hanno cercato aiuto, per paura di essere giudicati deboli. E alla fine si sono suicidati. Ora noi tentiamo di fare sì che questo non avvenga».
In palestra, un gruppo di militari sta facendo ginnastica. Esercizi facili, da eseguire lentamente, il peso del giubbetto anti proiettile ha rovinato la schiena a tanti. Mykolai, 29 anni, lavora separato dagli altri. Si è ferito alla gamba, come mostrano le cicatrici profonde. Ha subito due interventi e ora si muove a fatica. «I miei superiori mi hanno mandato qui per la fisioterapia. Ma ho trovato molto più utile parlare delle mie paure e del mio dolore».
Il programma non è progettato solo per curare i soldati, ma anche per mostrare loro che sono apprezzati e non sono solo dei numeri. «Volevamo rompere completamente con ogni traccia del passato sovietico», sostiene ancora Prykhodko, «quando l’individuo non aveva nessuna importanza. Ai tempi dell’Urss, i militari si preoccupavano più della propaganda che della salute dei singoli soldati. Noi vogliamo ricordare ai soldati che ci prendiamo cura di loro come persone, della loro salute, dei loro sentimenti, delle loro vite».