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 2023  maggio 20 Sabato calendario

Una notte nel museo dell’Acropoli

Andrea Marcolongo ha trascorso una notte nel museo dell’Acropoli sotto ciò che resta dei fregi del Partenone porta-ti a Londra da Lord Elgin. Sylvain Tesson ha dedicato un documentario a Byron che denunciò la spoliazione. «La Lettura» li ha fatti dialogare: freddi sull’idea di restituire le opere trafugate, rivendicano l’universalità della bellezza e dell’accesso all’arte indicando una nuova frontiera dei recuperi archeologici. Con spedizioni subacquee a caccia dei tesori perduti

Pomeriggio di primavera parigina, Café Nemours di place Colette a pochi passi dal Louvre. Ai tavolini all’aperto si incontrano Andrea Marcolongo, Sylvain Tesson e, tramite loro, Lord Elgin e Lord Byron, ovvero l’ambasciatore britannico che rubò i marmi del Partenone per portarli al British Museum, e il poeta romantico che partì da quello scempio per invocare il risveglio della Grecia e lottare per la sua indipendenza, fino alla morte, a Missolonghi, nel 1824.
Marcolongo, nata nel 1987 a Crema ma parigina da ormai quattro anni, è autrice del bestseller mondiale La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco (Laterza), di altri saggi tradotti in 28 Paesi e adesso di Spostare la luna dall’orbita (Einaudi), che fa parte della collana «Ma nuit au musée» (Stock) ideata in Francia da Alina Gurdiel: un autore passa una notte in un museo di sua scelta e scrive quel che le opere gli suggeriscono. Dopo, tra gli altri, Kamel Daoud, Adel Abdessemed e Christophe Ono-dit-Biot, Enki Bilal, Leila Slimani e Christophe Boltanski, tocca a Marcolongo che racconta la sua notte al museo dell’Acropoli ad Atene, trascorsa un anno fa in una tenda da campeggio «sotto le briciole», cioè quel poco che resta dei marmi del Partenone: il piede di una dea, la mano di Zeus, la testa di un cavallo. Lord Elgin all’inizio del XIX secolo portò via quasi tutto, in Inghilterra. E Andrea, a farle sinistra compagnia nella notte in tenda, si è portata una sua biografia.
Tesson, suo amico, due anni fa ha condiviso con lei un dibattito all’Accademia di Atene sulla Grecia, «nostra madrepatria». Scrittore e viaggiatore, erudito alpinista, a sua volta autore del bestseller internazionale Nelle foreste siberiane (Sellerio), poi di Un’estate con Omero (Rizzoli) e di In viaggio con Rimbaud, appena uscito sempre per Rizzoli, due anni fa Tesson è andato in Grecia per il «Figaro» sulla tracce di Byron a Missolonghi, ha scalato la parete di Varasova e trascorso una notte con i fantasmi del passato, nella grotta Saint Nicolas.
Qui vicino, al Louvre, nel dipartimento delle Antichità greche, sono esposti una metopa e un frammento di fregio del Partenone. Marcolongo nel libro si ripromette di compiere un pellegrinaggio in tutti i luoghi dove si trovano pezzi trafugati dal Partenone, ed eccoci qui. Che cosa pensate del cattivo di questa storia, Lord Elgin? Lo condannate?
ANDREA MARCOLONGO – Sì ma con molte attenuanti. Provo quasi pietà per la sua fine drammatica, la morte tra i debiti, la malattia che gli ha sfigurato il volto, abbandonato dal governo britannico e persino dal British Museum. Alla fine Elgin è diventato il capro espiatorio perfetto, anche se agì mosso soprattutto da spirito di servizio, per fare quel che credeva essere il bene dell’Inghilterra. Il furto dei marmi del Partenone è un atto ignobile, ma non fu sua l’idea e comunque non ne ha tratto alcun vantaggio personale. E tu Sylvain? Lo condanni ancora il ladro del Partenone, di cui in passato mi hai parlato malissimo?
SYLVAIN TESSON – No, ho cambiato idea. Ho appena avuto una conversazione con Pierre Rosenberg, ex direttore del Louvre e membro dell’Académie française, che mi ha aperto gli occhi. Prima condannavo Lord Elgin perché usavo il cuore, e da cattolico non potevo che biasimare il furto. Rosenberg mi ha fatto ragionare. Se condanniamo sulla base di criteri morali, e ci mettiamo a riparare i torti, dove ci fermiamo? Crediamo forse che tutti i Tiziano, Tintoretto, Canaletto, Carpaccio custoditi dai musei francesi abbiano le carte morali in regola? Se ci mettiamo a ragionare in termini di purezza morale, cosa davvero tipica della nostra epoca, dobbiamo chiederci due cose: chi siamo noi per giudicare? E poi, se cominciamo a restituire le opere, dove poniamo il limite?
Il titolo del libro, «Spostare la luna dall’orbita», riprende l’espressione usata dai greci per definire quell’espropriazione, una specie di catastrofe. Ma allo stesso tempo l’esergo di Marcolongo è «Per i miei debiti verso la Grecia», come se esistesse un furto collettivo da espiare. In un passaggio racconta che quando qualche anno fa è riuscita a comprarsi i suoi venti metri quadrati scarsi con vista su Montmartre, un amico le ha fatto notare che «ti sei comprata una casa a Parigi con dei libri sul greco, che prodigio!», risvegliando senza saperlo il senso di colpa.
ANDREA MARCOLONGO – Quell’amico era proprio Sylvain. E nel libro parlo molto del mio senso di colpa, anzi della «sindrome dell’impostore» che mi affligge.
Perché questo scrupolo?
ANDREA MARCOLONGO – Perché sono laureata in Lettere classiche ma non sono un’accademica, ho avuto successo a 29 anni con un libro sul greco antico e quindi devo tutto alla Grecia, ma non parlo il greco moderno.
SYLVAIN TESSON – È uno scrupolo che è alla base di questo bellissimo libro molto potente, pieno di sfumature e di passaggi toccanti, come quello sul rapporto tra Andrea e suo padre. Riconoscere i debiti verso la Grecia è una cosa che dovremmo fare tutti. Dovremmo essere tutti affetti da questa sindrome dell’ultimo della classe, perché la Grecia antica non si può dimenticare e non si può oltrepassare. Puoi essere degno dell’oggetto dei tuoi studi se ti occupi di animali, di geografia, dei temi che affronto io che al confronto sono cabaret. Ma ogni persona intelligente che pretende di parlare della Grecia antica non può che essere colta da questa sindrome dell’ultimo della classe, è un segno di grandezza.
L’idea è che siamo tutti dei Lord Elgin?
ANDREA MARCOLONGO – Credo di sì, anche per questo alla fine non mi sento di gettargli la croce addosso. E poi meglio il furto dell’indifferenza.
SYLVAIN TESSON – Possiamo dire che Lord Elgin è stato un ladro ma almeno è stato un ladro di talento e di gran gusto. C’è chi ruba motociclette o televisori, lui si è dedicato all’arte classica.
Che cosa pensate della restituzione delle opere nel Paese d’origine?
ANDREA MARCOLONGO – Nel libro parlo della ferita gravissima inflitta alla Grecia ma non so se restituire i marmi ad Atene potrebbe sanarla. È una questione molto complessa, c’è il rischio che lo si faccia con la pretesa oltretutto di essere ringraziati, con quella voglia un po’ sospetta di presentarsi sotto una buona luce. C’è chi sostiene che l’idea stessa di museo sia neocolonialista: aprire musei in Africa perché accolgano opere restituite dagli europei secondo alcuni è un atto paternalista.
SYLVAIN TESSON – A me la restituzione delle opere sembra il sintomo perfetto della nostra epoca: a nessuno interessano davvero la cultura classica, il greco e il latino, ma non si è mai parlato così tanto della questione della restituzione. Mi sembra un perfetto tema woke, un’ambizione di purezza e moralità che si scontra con la realtà. Più la cultura crolla, più la volgarità avanza, e più si vogliono redistribuire le vestigia del passato a destra e a manca. Forse è perché non interessano davvero più a nessuno. Anche nella scelta degli studi si pensa per prima cosa all’utilità, a quanto quel che si studia sia più o meno legato al mondo del lavoro. Goethe, se non sbaglio, diceva: «Abbiate cura del bello, perché tanto l’utile prenderà sempre cura di sé stesso».
Qui vicino, al Louvre, c’è la «Gioconda», oggetto di perenni lamentele dei turisti italiani che troverebbero più giusto vederla agli Uffizi, a Firenze.
ANDREA MARCOLONGO – «Ridateci la Gioconda» è il commento che si sente ripetere spesso in Italia per accompagnare la rivalità verso la Francia.
SYLVAIN TESSON – Quel che scrive Andrea a proposito della Gioconda è l’altra idea formidabile del libro. Questo è un passaggio decisivo, voglio leggerlo: «L’arte non conosce diritto di proprietà esclusivo, poiché non è soltanto l’oggetto, la parte materiale di un quadro di tela o di una scultura in bronzo, a costituire l’opera, bensì l’immaginario che da essa s’irradia fino a formare la coscienza artistica di un popolo. La Gioconda in quanto quadro a olio su tavola è proprietà della Francia perché fu Leonardo da Vinci in persona a cederla al re Francesco I in cambio di una rendita; allo stesso tempo la Gioconda in quanto arte è proprietà indiscussa del Rinascimento italiano e dell’immaginario collettivo dell’Italia, per il quale nulla cambia se il quadro più famoso del mondo sia custodito al Louvre, agli Uffizi, in Cina o rubato da Arsenio Lupin». Credo che questo sia verissimo, vale per la Gioconda al Louvre che però resta legata all’immaginario italiano nel mondo, e vale per tutte le altre opere d’arte che per le vicissitudini della storia si trovano in un Paese che non è quello di origine.
Che fare dei marmi greci finiti in fondo al Mediterraneo, nel naufragio delle navi che li trasportavano?
ANDREA MARCOLONGO – Questa mi sembra la sfida più interessante, la causa per la quale mobilitarsi: sarebbe bello organizzare una spedizione archeologico-subacquea per andare a ritrovare quei tesori. Lì davvero varrebbe la pena unire le forze e restituire le opere perdute non a un Paese ma all’umanità. In un momento di ottimismo e di entusiasmo ho pensato di scrivere a Elon Musk, talmente ricco e folle che potrebbe persino appassionarsi al progetto.
Un altro aspetto interessante del libro è che è l’occasione per Andrea di parlare di suo padre che è venuto a mancare: «Sono stata la figlia di un uomo che non aveva studiato. Non il greco antico né il latino: mio padre non aveva studiato niente».
SYLVAIN TESSON – Sono pagine bellissime, con quel passaggio dove Andrea dice che da quando suo padre è morto non è più una figlia ma «un moncone di figlia». Spiega di sentirsi come quelle persone amputate che continuano a sentire un arto fantasma. Dopo la morte del padre continua a volergli telefonare, magari per dirgli dell’articolo uscito su qualche giornale che lui avrebbe ritagliato per metterlo nella solita cartelletta.
Il rapporto con il padre amatissimo, che non parlava italiano ma dialetto veneto ed era quasi analfabeta, ha qualcosa a che fare con quella «sindrome dell’impostore» di cui parlavamo all’inizio? Quella sensazione di non essere legittimata a scrivere, tantomeno di Grecia antica, cosa che tanti autori francesi assocerebbero alla definizione di «transfuga di classe»?
ANDREA MARCOLONGO – Immagino di sì. Mio padre che non ha mai letto un libro mi ripeteva «studia», voleva che io parlassi l’italiano e non il suo dialetto ma anche tante altre lingue, chiamava il greco antico «quella lingua scritta come i geroglifici» eppure è stato lui a insistere perché scegliessi il liceo classico. Da quando non c’è più non riesco neanche più a coltivare il mio rapporto con l’Italia, è un universo che mi sembra essersi chiuso con lui. L’Italia per me era mio padre. Mi sarebbe piaciuto parargli della mia notte al museo dell’Acropoli, lo avrebbe raccontato a tutti i suoi amici.
Se Lord Elgin, verso il quale provate alla fine la compassione che si deve ai mediocri, è l’eroe negativo, quello positivo è Byron. Sulle cui tracce Tesson ha realizzato due anni fa un grande reportage.
ANDREA MARCOLONGO – È Byron a lanciare la maledizione di Minerva che ho messo all’inizio del libro: «Contemplate questo santuario, solitario e violato, contate le rovine che ancora si possono vedere. (…) La mia maledizione cadrà sulla testa di colui che ha commesso questo crimine, su di lui per primo e su tutti i suoi discendenti». Ha fatto del furto di Lord Elgin uno scandalo tale da mobilitare le coscienze in favore dell’indipendenza della Grecia.
SYLVAIN TESSON – Quel che amo di George Byron è il suo essere uomo di poesia e uomo di lotta, insieme. Era davvero un tipo incredibile, un folle. Un inglese.
Un eccentrico inglese?
SYLVAIN TESSON – Eccentrico inglese è ridondante. Inglese è sufficiente. Sono andato a Missolonghi dove poi morì per rendergli omaggio. Da cinque secoli la Grecia era dominata dall’impero ottomano e lui ha saputo ribellarsi a qualcosa che per molti era un dato di fatto. Quella era ancora un’epoca nella quale un poeta poteva avere un’influenza sulla politica. Oggi i poeti, i letterati, gli intellettuali, non hanno alcuna influenza.
Però i vostri libri sull’antichità hanno grande successo.
ANDREA MARCOLONGO – È vero, sono segnali contraddittori. La cultura classica sembra poco presente nel mondo contemporaneo ma ogni tanto le persone si appassionano.
SYLVAIN TESSON – Possiamo parlare di successo individuale e fallimento politico.
A proposito di politica, Lord Byron era impegnato anche a favore dell’Armenia.
ANDREA MARCOLONGO – Grecia e Armenia avevano un oppressore comune, l’impero ottomano. Alcuni arrivano a dire che il rapporto difficile dei greci con le tasse, e pure la gastronomia poco ricercata, affondino le radici nel desiderio di non compiacere i dominatori.
SYLVAIN TESSON – Oggi mi batto per l’Armenia perché è tuttora minacciata. L’Armenia è stato il primo regno cristiano, bisogna salvarla non certo per ragioni di utilità. Quando era a Venezia, nel monastero di San Lazzaro, Byron lavorò a un dizionario anglo-armeno, ho visitato il monastero e ho visto la scrivania alla quale si sedeva. Anche qui, Lord Byron è l’esempio da seguire.