La Lettura, 20 maggio 2023
Grandi belve minacciate di estinzione
Quaranta anni fa, un’epidemia da coronavirus, scoppiata in un allevamento di ghepardi nell’Oregon, causò in brevissimo tempo la morte di molti esemplari. Questo episodio aprì un filone di indagini divenuto sempre più importante. Non tanto in materia di patologie da coronavirus, quanto a riguardo dei problemi di conservazione degli animali a rischio di estinzione. All’epoca, i coronavirus erano già noti da tempo: quelli umani, da un paio di decenni.
Rilievo all’episodio qui ricordato fu dato da un importante articolo sulle basi genetiche della vulnerabilità del ghepardo pubblicato due anni dopo, nel 1985, sulla rivista «Science». Questo studio sottolineava l’eccezionalità della circostanza: mentre nel gatto domestico un’epidemia da coronavirus provoca al massimo una mortalità dell’1 per cento, gli effetti sui ghepardi dell’allevamento interessato erano stati devastanti.
L’episodio era paragonabile a quanto era avvenuto nel 1969-70, sempre negli Stati Uniti, quando un piccolo fungo parassita del mais si era diffuso con la velocità di un incendio, causando la completa distruzione di estesissime coltivazioni di quel cereale. In entrambi gli episodi, alla potenziale virulenza dell’attacco si era sommata la mancanza di variabilità genetica delle popolazioni colpite. Nel caso del mais, questo era dovuto alla scelta, apparentemente vincente ma rivelatasi poi sconsiderata, di partire da semi geneticamente uguali: garanzia di produzione uniforme, ma anche condizione di rischio estremo. Di fronte all’attacco di Bipolaris maydis, capace di fulminare le piante colpite, nelle campagne non ce n’erano altre, con caratteristiche genetiche diverse, alcune delle quali avrebbero sopportato meglio l’attacco del fungo.
Analogamente, gli effetti del coronavirus sui ghepardi segnalavano la grande uniformità genetica di questi felini. Fu il punto di partenza per una serie di studi, condotti ben presto anche sulle popolazioni selvatiche, che dimostrarono l’estrema omogeneità genetica dei ghepardi africani. Questa situazione insolita suggeriva che le popolazioni selvatiche di questo felino avessero attraversato quello che in gergo tecnico viene chiamato un collo di bottiglia, vale a dire, una fortissima riduzione numerica, seguita da una modesta espansione fino al raggiungimento dei numeri attuali, che sono comunque limitati.
Nel periodo di massima riduzione numerica, buona parte della variabilità genetica sarebbe andata perduta e le generazioni successive si sarebbero così trovate a condividere, e a trasmettere a loro volta, un patrimonio genetico sostanzialmente identico.
Fortunatamente, questa ridotta variabilità genetica non ha impedito al ghepardo di sopravvivere fino ad oggi, perlomeno nella parte meridionale del suo areale africano, che però è frammentato in una quindicina di popolazioni, solo quattro delle quali contano più di duecento individui. Drammatica è invece la condizione di due piccolissime popolazioni relitte (una decina di individui ciascuna) che sopravvivono, a grandissima distanza dalle popolazioni africane, in due zone dell’Iran.
Purtroppo, quello del ghepardo non è un caso isolato, all’interno della famiglia dei Felidi, soprattutto fra quelli di maggiori dimensioni. Per il leone è documentata una riduzione del numero degli individui viventi allo stato libero di circa il 40% fra il 1993 e il 2014, un arco di tempo che corrisponde a tre generazioni. Animale simbolo della savana africana, il leone era diffuso un tempo anche in Europa e ne danno testimonianza, tra gli altri, Aristotele ed Erodoto. In quella che oggi è la Grecia, il leone era ancora presente nel primo secolo dopo Cristo, nel Caucaso fino al X secolo. In Turchia si sarebbe estinto verso la fine del XIX. Ancora più a Est, la presenza del leone è testimoniata in Iran fino al 1941. Ai nostri giorni, una piccola popolazione è ancora presente nel Gir Forest National Park and Wildlife Sanctuary nello Stato indiano del Gujarat.
In queste due pagine sono illustrate tutte le specie di Felidi viventi al giorno d’oggi, ma l’albero genealogico della famiglia, i rappresentanti più antichi della quale sono vissuti circa 25 milioni di anni fa, include anche un certo numero di rami estinti. Il più notevole è quello delle tigri dai denti a sciabola, dall’aspetto inconfondibile per le straordinarie dimensioni dei due canini superiori. I rappresentanti più antichi di questa linea evolutiva sono noti da diverse località dell’Europa e dell’Asia, ma le tigri dai denti a sciabola hanno colonizzato anche le Americhe. Spettacolare è l’ammasso di resti di questi grandi carnivori trovato nei pozzi di catrame di Rancho La Brea presso Los Angeles, databili fra i 10 mila e i 20 mila anni fa.
La specie di maggiori dimensioni (Smilodon populator) visse invece in America del sud: alta al garrese fino a un metro e venti centimetri, come una grande tigre siberiana, il più grande felide vivente, superava per peso anche quest’ultima, arrivando a oltre 400 chilogrammi – 250 volte il peso di un grosso maschio di gatto rugginoso, il più piccolo fra i quaranta rappresentanti viventi di questa famiglia.