La Lettura, 20 maggio 2023
A che serve il genoma apparentemente superfluo
Abbiamo un Dna barocco, pieno di arzigogoli in sovrappiù. Il nostro genoma contiene poco più di tre miliardi di lettere AGCT, le basi nucleotidiche. Eppure, i geni che vengono trascritti e tradotti in sequenze di amminoacidi per costruire le proteine, i mattoni fondamentali dello sviluppo e della fisiologia di ogni organismo sulla Terra, sono soltanto un’esigua minoranza di tutto il genoma (circa il 2%). Fluttuano come isole in mezzo a un oceano di sequenze apparentemente inutili. Come mai? Un ingegnere non progetterebbe una macchina in questo modo.
Se paragoniamo tra loro le dimensioni dei genomi di specie diverse, scopriamo che non c’è una corrispondenza lineare tra il numero di geni attivi e la complessità delle forme di vita. La cipolla, per esempio, possiede più del quadruplo del nostro Dna e, con tutto il rispetto per questa deliziosa pianta bulbosa, non pensiamo che sia quattro volte più complessa e intelligente di Homo sapiens. Tale stranezza avviene perché nelle piante le specie nascono talvolta fondendo per ibridazione i loro genomi, che diventano grandissimi, e poi perché il Dna è pieno di parole e frasi che non dicono nulla: ripetizioni, finti geni, geni disattivati, geni introdotti da retrovirus nel lontano passato (quasi l’8%). Il barramunda, un pesce polmonato australiano, ha un genoma gigante, lungo 14 volte quello umano. Quindi, non conta quanti geni si hanno, ma come sono connessi tra di loro e come sono regolati. I geni umani sono poco più di 22 mila soltanto, ma mediamente un gene può produrre, in tessuti diversi, quattro proteine differenti. Tutte le cellule del nostro corpo hanno lo stesso genoma, ma poi si differenziano e assumono funzioni diverse, dipendenti da come i geni sono espressi e regolati.
Resta però un punto oscuro. Avere quel Dna in eccesso è un costo. Perché la selezione naturale non ha ottimizzato i nostri genomi, pulendo via le parti «neutrali» o non funzionali? Forse perché svolgono funzioni che ancora non conosciamo. Una decina d’anni fa il consorzio internazionale Encode aveva notato che molta parte del Dna cosiddetto «spazzatura» (junk Dna) è attivo, cioè produce trascritti di Rna e potrebbe essere coinvolto in qualche processo biochimico. Insomma, non è inerte come ci aspetteremmo da qualcosa che non serve a niente.
Innanzitutto, il Dna che non codifica direttamente per proteine contiene molte sequenze che regolano l’attività dei geni e dunque sono essenziali. I trascritti di certe sequenze neutrali potrebbero essere una reminiscenza evolutiva di geni un tempo attivi e ora dismessi. Inoltre, le zone presunte inutili potrebbero avere un ruolo strutturale, per esempio distanziando i geni fra loro. Una quarta possibilità, più sorprendente, è che in quelle regioni si nascondano sequenze in questo momento inutilizzate, ma che potrebbero essere ingaggiate e combinate per dare origine a nuovi geni. In pratica: una riserva alla quale attingere.
La spazzatura non è esattamente il luogo in cui immaginiamo che nascano le novità più interessanti, eppure in genetica sembra proprio che così accada spesso. Uno studio pubblicato recentemente su «Nature Ecology & Evolution» da un team di ricercatori dell’Università di Pechino guidati da Chuan-Yun Li è riuscito per la prima volta a descrivere il meccanismo che rende possibile questo ripescaggio. Gli imputati sono alcuni complessi enzimatici, chiamati U1, che regolano le possibilità di movimento dell’Rna messaggero, quello che deriva dalla trascrizione del Dna all’interno del nucleo (ne abbiamo sentito tutti parlare perché alcuni vaccini contro Sars-CoV-2 sono stati realizzati utilizzando proprio l’Rna messaggero). La densità dei siti di riconoscimento delle proteine U1 regola il processo di trasferimento di un Rna immaturo in Rna maturo che poi migrerà dal nucleo nel citoplasma della cellula: maggiore densità equivale a minore maturazione dell’Rna.
Gli Rna non codificanti hanno una maggiore densità di siti di riconoscimento per le proteine U1 rispetto agli Rna messaggeri codificanti. Comparando il profilo degli Rna codificanti e non codificanti in Homo sapiens e negli scimpanzé rispetto ai macachi, gli autori hanno individuato 74 Rna messaggeri che sono codificanti nel cervello umano e di scimpanzé, ma restano non codificanti nel macaco. La differenza è che negli Rna messaggeri trascritti da questi nuovi geni ci sono meno sequenze di legame per proteine U1 rispetto ai corrispondenti di macaco. Quindi la trasformazione di un Rna non codificante in Rna messaggero avviene tramite una riduzione della densità dei siti di riconoscimento U1, con la conseguente maturazione dell’Rna messaggero e la migrazione dal nucleo al citoplasma. Questo è stato dimostrato con l’editing genetico su 14 di questi geni in cellule umane.
Questi geni sono espressi in modo predominante nel cervello e nei testicoli. Per chiarire il significato biologico di questi geni originatisi de novo, gli autori hanno utilizzato organoidi corticali del cervello partendo da cellule staminali embrionali per mimare lo sviluppo precoce della neocorteccia umana. Si sono concentrati su uno di questi geni de novo (ha una sigla lunghissima, ve la risparmiamo) che codifica per una proteina di 107 amminoacidi localizzata sia nel nucleo che nel citoplasma, molto espressa nel cervello umano durante lo sviluppo embrionale. Mutando un sito di legame U1 con l’editing genetico in cellule progenitori di neuroni umani, gli autori hanno visto un aumento dell’Rna messaggero maturo nel citoplasma. Infine, gli autori hanno generato topi transgenici che esprimono proprio quel gene umano e che mostravano cervelli più grandi a causa di un’espansione della corteccia.
La scoperta, in sostanza, è che attraverso questo processo l’Rna non codificante può diventare Rna messaggero a tutti gli effetti, un «clandestino di successo». Come era già stato mostrato su «Nature» nel 2019, questi «geni dalla discarica» possono evolvere da lunghe porzioni non codificanti del Dna i cui trascritti cominciano a uscire dal nucleo e a sintetizzare proteine che poi la selezione naturale raffina. Il team cinese ha mostrato che ben 74 nuovi geni (di cui 45 tipicamente umani e 29 condivisi con gli scimpanzé) sono emersi nel corso dell’evoluzione. E non sono geni qualunque, visto che controllano la velocità dello sviluppo cerebrale, rendendo il nostro encefalo più voluminoso e complesso. Quindi la genetica alla base dell’unicità dell’intelligenza umana deve molto a geni ripescati dalla spazzatura del Dna.
Alcuni genetisti propongono anche per questo di abolire l’espressione «Dna spazzatura». Resta il fatto però che nel genoma umano ci sono cromosomi che sono quasi interamente costituiti da sequenze ripetute e palesemente inutili. Quel rumore di fondo esiste, al di là di tutte le funzioni che noi forse non riusciamo ancora a vedere. Come ipotizzò nel 1998 il grande biologo molecolare e Premio Nobel Sydney Brenner, esistono due tipi di spazzatura: quella che buttiamo perché è dannosa (garbage) e quella che teniamo perché innocua (junk). I processi molecolari che generano Dna extra superano quelli che se ne liberano, ecco perché i genomi sono barocchi. La selezione naturale pulisce via il garbage, ma tollera entro certi limiti il junk.
Ora sappiamo che nel junk ci sono sequenze di riserva, neutrali, che possono essere attivate nel corso dell’evoluzione e convertite a nuove funzioni, come se fossero materiale grezzo su cui la selezione naturale può agire. Un po’ come quelle cianfrusaglie che teniamo in garage perché non si sa mai, un giorno potrebbero tornarci utili. Questo meccanismo di cooptazione da precursori non funzionali, intuito già da Charles Darwin, è oggi chiamato exaptation, cioè il riuso opportunistico di strutture (genetiche e fenotipiche) evolutesi per tutt’altre ragioni o come effetto collaterale di altri processi. L’evoluzione non parte ogni volta da zero, ma lavora come un bricoleur, facendo di necessità virtù con il materiale a disposizione. Il nostro cervello è un campione di bricolage e deve la sua plasticità proprio al fatto di aver convertito più volte le sue strutture a nuove funzioni.
Dunque la ridondanza del Dna può avere un valore adattativo. Non si pensi però che il processo evolutivo possa prevedere in anticipo l’utilizzo di una sequenza neutrale. L’evoluzione non vede nell’avvenire e non può favorire un tratto per via di una sua potenziale utilità futura. La selezione naturale premia le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione del singolo individuo qui e ora, nel corso della sua vita. Tuttavia, in natura alla lunga vince il compromesso: quella ridondanza potrebbe essere un costo che la selezione in passato ha tollerato perché chi la possedeva aveva di fatto una maggiore evolvibilità, cioè la capacità di evolvere nuovi geni per cooptazione. Detto altrimenti: noi discendiamo dagli antenati che hanno assemblato nuovi geni dalla spazzatura e così hanno avuto più margini di cambiamento.