Robinson, 20 maggio 2023
Storia dell’autoritratto
Il primo autoritratto della storia dell’arte – secondo quanto racconta Plinio il Vecchio nella Naturalis historia – è di Iaia di Cizico, intorno al 100 avanti Cristo: la pittrice dipinse la propria immagine allo specchio. E anche se la pratica di raffigurarsi è molto più antica (a Saqqara, nella tomba di Ptahhotep, visir e letterato dell’antico Egitto, nel XXV secolo a.C. lo scultore Ni-ankh Ptah si ritrasse nel bassorilievo, nell’atto di bere da una brocca, sotto il proprio nome lì inciso), stranamente nessuno si è ancora interrogato sulla genesi femminile dell’indagine su di sé attraverso il proprio riflesso. Neppure Gabriella Giannachi nel pur esaustivo Autoritratto Storia e tecnologie dell’immagine di sé dall’antichità ai selfie,appena pubblicato da Treccani Libri nella collana Visioni. Saggio di elevato spessore su un genere che (sebbene in inglese abbia trovato il proprio nome, self-portrait, solo nel 1831, e in italiano ancora più tardi) ha acquistato fin dal Rinascimento sempre maggiore centralità nelle pratiche artistiche, fino a sconfinare oggi nella vita di tutti, e ha già meritato perciò indagini fondamentali in volumi come quelli di James Hill e Omar Calabresi. L’angolazione di Giannachi è però nuova, e si incentra soprattutto sulla relazione fra l’artista e chi lo guarda: se stesso, ma anche lo spettatore, assente oppure ipoteticamente presente, considerando quindi l’autoritratto non tanto come una questione di autorappresentazione dell’artista ma anche di previsione della sua percezione e ricezione, e dunque come «un atto mutevole» di relazione.L’autrice insegna Performance and new media ad Exeter, scrive in inglese e rispetta regole e obiettivi della saggistica accademica anglosassone. Nell’illustrare come nel corso del tempo gli artisti abbiano rivisitato il genere dell’autoritratto, si concentra sulle diverse tecnologie, serie di pratiche, lavorazioni e strumenti – tra cui specchi, scalpelli, trapani, bisturi, macchine fotografiche, videocamere, computer e telefoni cellulari – abbinate a strategie teatrali e performative, cui essi hanno fatto ricorso per cogliere il proprio aspetto, costruire la loro identità e personalità, e produrre opere che hanno influenzato la loro e la nostra interpretazione del concetto di sé. (Il prefisso self, ci ricorda, compare in inglese solo alla metà del ‘500). Con l’approccio interdisciplinare che caratterizzava anche il suo precedente Archiviare tutto. Una mappatura del quotidiano, affascinante storia delle pratiche di archiviazione, riassume i dibattiti della filosofia occidentale – da Omero,Socrate, Aristotele e Plotino, fino a Elias e Derrida, passando da Descartes, Hume, Kant, Locke, Freud, Foucault e Deleuze – ma dialoga anche con gli studi culturali, la cinematografia, la teoria dei nuovi media, la psicologia, la psichiatria, la religione, la sociologia, l’informatica e le neuroscienze, per ripercorrere l’origine, l’evoluzione dell’autoritratto e le interpretazioni del sé esplorando non solo dipinti, ma anche sculture, installazioni, performance, fotografie, selfie, video, opere digitali (a ognuno di questi mezzi espressivi dedica un capitolo). La rassegna del primo (L’invenzione del genere)passa da van Eyck, Dürer, Parmigianino, Gentileschi, Rembrandt, Velazquez, per arrivare a Kahlo.Ma analizza soprattutto i pittori che si raffigurano nell’atto di guardare insieme lo specchio e l’opera – mostrandosi sia come soggetto al lavoro sia come oggetto da osservare, e rappresentandosi come si percepiscono mentre si guardano – finché nei Quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto lo specchio coincide con l’autoritratto,permettendo anche allo spettatore di riflettersi nell’opera. Quella del secondo capitolo (L’autoritratto in fotografia) spiega come Duchamp, Cahun, Mendieta, Woodman, Sherman, Wearing e Muholi utilizzano la macchina fotografica per cogliere la propria interpretazione di ruoli e personalità differenti (qui l’Io è spesso l’Altro).Più della metà del volume è dedicata però all’autoritratto scultoreo ( inevitabili le pagine su Orlan e Stelarc, ma le migliori sono quelle su Giuseppe Penone, da Svolgere la propria pelle al Soffio), e ai video, con ampia disamina delle opere di Graham, Hill, Jonas, Hershman Leeson: qui, per la difficoltà di visionare le opere e la loro non riproducibilità (il volume contiene 48 illustrazioni in bianco e nero, di dipinti, fotografie e sculture, ma ovviamente solo fotogrammi dei video), il discorso diventa iniziatico, e chiede al lettore un atto di fede.Il libro di Giannachi ha il pregio di riflettere nella forma la sostanza: coinvolgere il lettore nel discorso, consapevole della sua (implicita) presenza. La tesi, annunciata nella prefazione, viene argomentata con chiarezza didattica, allo scopo di essere dimostrata. La complessità e l’ampiezza dei riferimenti, e la sovrabbondanza delle citazioni (la saggistica universitaria impone di virgolettare o menzionare chiunque si sia espresso sull’argomento) fanno somigliare Autoritratto a un quadro specchiante di Pistoletto – nel quale si riflettono tutti i passanti, ma non l’inconoscibile autore stesso. Esito paradossale ma coerente con questa storia della rappresentazione del sé nelle cui forme contemporanee estreme il soggetto continua a raccontarsi ma smette di esistere se non come «produttore di autosimulazioni che vengono costruite e condivise in base alla loro funzione».