la Repubblica, 19 maggio 2023
Olga Misik racconta la sua fuga da Mosca per scampare alla repressione
Esco dalla stazione di polizia dopo essere stata interrogata in merito alle mie pubblicazioni pacifiste. Ora in Russia chi osa dire la verità rischia 15 anni di detenzione. «È ora che te ne vada», dice Igor. Me lo dice ogni giorno dall’inizio della guerra, ma adesso per la prima volta sono d’accordo con lui. Mancano ancora tre mesi alla fine del mio periodo di restrizione della libertà, ma capiamo già che alla scadenza di questo termine non mi lasceranno libera. Torniamo a casa, mi sdraio sul letto e penso. Igor entra nella stanza: «Allora, ce ne andiamo?». «Sì», sorprendentemente mi è più che facile essere d’accordo. Non è il momento di procrastinare. Mi consulto con il mio avvocato: anche lui mi dice che, dopo la morte di mia madre, in Russia non mi trattiene più niente.
Il percorso è attraverso un Paese terzo fino alla Georgia, dove poter chiedere un visto umanitario, attendere Igor e partire per l’Europa. Igor resta per chiudere i suoi affari e prepararsi alla partenza. I biglietti per la Georgia costano circa 400 euro, ma per il sabato costano la metà. L’avvocato dice di acquistarli in contanti all’aeroporto del terzo Paese. Di notte faccio una passeggiata per Mosca e faccio del mio meglio per imprimermela nella memoria. La mattina del 6 agosto mi sento psicologicamente pronta. Ho ripulito il telefono di tutte le informazioni potenzialmente pericolose, messaggistica istantanea e social network: lascio solo le cose più innocue. Con me porto solo un asciugamano, un po’ di vestiti e una sfilza di documenti sulla persecuzione politica per poter ottenere un visto umanitario. Il viaggio per l’aeroporto è lungo, ma il mio avvocato non è riuscito a trovare un’auto. Decidiamo di andare con la macchina di Igor. Ce ne sbattiamo di quasi tutte le misure di sicurezza: non portarti dietro il telefono, né tanto meno la Sim intestata a te, non dire a nessuno della tua partenza, non partire direttamente da casa tua, soprattutto in macchina di un conoscente, soprattutto in quella intestata a un membro della famiglia. Prima di partire, vedo che il volo di sabato è tutto esaurito. Stiamo in cucina in completa confusione su che cosa fare. «Ma cosa ci impedisce di metterci in cammino proprio adesso in auto per il checkpoint Verkhnij Lars con la Georgia?». «Dici sul serio?», Igor è sorpreso. «Beh, perché no?». Dopo aver discusso questa idea ancora per qualche minuto, decidiamo di andare subito in Georgia: sono 2mila km. Dopo aver caricato in macchina alcune paia di ciabatte e aver preso dei berretti colorati per sembrare dei turisti, ci mettiamo in moto. Fa un caldo pazzesco e il condizionatore della macchina non funziona. Siamo in un ingorgo con 30°C e ci sentiamo come su una padella incandescente. In senso letterale e figurato. Per le strade di Mosca gira un veicolo che spruzza acqua per rinfrescare l’asfalto e io mi sporgo dal finestrino. Un getto mi finisce direttamente in faccia e torno felice. Si fa sera e siamo ancora in viaggio. Per strada scrivo a un amico a Tbilisi che non c’è bisogno di venirmi a prendere all’aeroporto perché arriverò in auto con Igor attraverso il checkpoint di Vekhnij Lars. Mi chiede se per caso sono matta: Verknij Lars è famoso per i duri interrogatori al confine e, quando ti è proibito per legge lasciare la città e persino uscire di casa a quest’ora, questo diventa un problema. L’amico cerca di convincermi a rinunciare a questa pessima idea e ad acquistare i biglietti aerei. Gli dico, sperando al solito mio nella fortuna, che tutto andrà bene. Lui collega alla telefonata altri nostri amici comuni e attivisti dei diritti umani e tutti mi scoraggiano dall’attraversare Verkhnij Lars. Da qualche parte nei pressi di Voronezh, quando a contattarmi è anche il mio avvocato, cedo. Proprio in mezzo alla strada, invertiamo bruscamente e iniziamo a guidare verso un Paese terzo.
Riusciamo a muoverci ancora per un po’, poi si fa buio: è ora di organizzare un pernottamento. Non ci resta che dormire in macchina. Intorno anoi c’è un campo infinito di girasoli, sopra di noi ci sono le stelle. Ci svegliamo presto, un po’ stropicciati, e proseguiamo. Più ci avviciniamo al Paese terzo, più numerose diventano le “svastiche Z”, gli slogan patriottici e altri simboli fascisti. Molto presto tutto ciò per me finirà per sempre. Guidiamo tutto il giorno e ci fermiamo in un appartamento in affitto. È la mia ultima notte insieme a Igor. Compriamo i biglietti per il primo volo disponibile: parte tra due giorni e costa due volte di più, ma coincide esattamente col secondo anniversario della mia condanna. Quel giorno sarò in Georgia. La mattina dopo arriviamo nel Paese vicino. Al controllo di frontiera, fingeremo di andare dai parenti e che non resteremo a lungo nel Paese. Quando ci avviciniamo al valico di frontiera, Igor non se ne accorge subito e frena bruscamente proprio davanti alla guardia. «Dov’è che vi state precipitando così?», chiede la guardia, puntando col dito il segnale stradale che indica il limite di 20 km orari. «Stiamo andando da parenti», risponde Igor in modo teso e un po’ goffo. Il mio corpo si contrae. La guardia di frontiera prende i nostri documenti e io mi spavento. Di solito le guardie di frontiera hanno la lista delle persone a cui è vietato lasciare il Paese, qui no. Dopo aver appena aperto e subito chiuso i passaporti – solo per assicurarsi, a quanto pare, che si tratti proprio di passaporti – la guardia di frontiera ce li restituisce. Passiamo la frontiera e finalmente ci rilassiamo. Sto canzonando Igor, che, dopo tutte le nostre prove, si è comportato in modo sospetto. E lui risponde: «Te l’avevo detto che qui c’è un confine facile». E in effetti, non abbiamo neppure dovuto superare un posto di blocco al confine russo, semplicemente non esisteva. Attraversiamo paesaggi sconosciuti con una segnaletica stradale dal linguaggio insolito, felici di essere finalmente riusciti a scappare dalla Russia.
Igor mi accompagna fino in aeroporto. Poi va via. Non ho roaming: potrò connettermi a Internet soltanto una volta arrivata in Georgia. La guardia di frontiera si limita a chiedermi, senza molto interesse, dove sto andando e io dico: «Da mia zia». Mi ero preparata un’intera favoletta, con nomi e dettagli, ma non serve. Mi lasciano passare, salgo a bordo e decolliamo. Guardando dal finestrino, mi dico che questa potrebbe essere l’ultima volta che vedo la Russia. Ricordo che esattamente due anni prima, proprio in questa notte, passeggiavo per Mosca aspettando l’alba e pensavo di vederla per l’ultima volta. Quella notte la mia casa veniva perquisita e il giorno dopo venivo imprigionata. È un bel giorno per scappare dalla Russia.
Atterriamo a Tblisi. Al controllo passaporti mi trattengono particolarmente a lungo: tutti gli altri sono passati già da tempo, mentre io cerco di rispondere alle domande in un inglese scarso. Alla fine mi portano da qualche parte senza restituirmi il passaporto e mi dicono di aspettare. Rimango insieme ad altra gente trattenuta come me: non c’è un solo russo, soltanto gente proveniente da Paesi arabi. Perché non gli è piaciuto il mio passaporto? Qualche minuto dopo vengo portata in una piccola stanza senza finestre e capisco subito che cosa succederà dopo. Un uomo, parlando in russo con accento, mi fa molte domande: dove mi fermerò?, quanto tempo starò in Georgia?, perché sono partita?, chi mi verrà a prendere in aeroporto?, quali sono le loro date di nascita e i loro numeri di telefono?. Non ha più senso mentire e dico le cose come stanno: me ne sono andata per sfuggire alla persecuzione politica, otterrò un visto umanitario in Georgia e poi me ne andrò. Dopo mezz’ora di interrogatorio, l’uomo mi restituisce il passaporto e mi dice di andare ai controlli di confine. Tiro un sospiro di sollievo: ce l’ho fatta. La guardia di frontiera mi chiede in russo da chi sto andando e, quando mi vede indugiare, sorride e mi dice: «Non si preoccupi. Va tutto bene». Ha ragione. Mi restituisce il passaporto con il timbro d’ingresso, sorride e dice: «Benvenuta in Georgia!».