il Giornale, 18 maggio 2023
Intervista a Milo Manara
Il nome della rosa torna a far parlare di sé a pochi anni di distanza dalla serie televisiva con John Turturro, non particolarmente apprezzata dalla critica né dal pubblico generalista di Rai Uno. Si tratta, questa volta, di una versione a fumetti, realizzata dal maestro della nona arte Milo Manara. Pubblicato a puntate sulle pagine di Linus, è ora in libreria per Oblomov Edizioni il primo dei due volumi previsti. Autore solitamente associato all’erotismo per la sensualità dei suoi personaggi femminili, Manara è invero un artista di grande cultura, in grado di rievocare con sapienza le epoche storiche attraverso un disegno chiaro e pulito. Le tavole viste fino a ora colpiscono per l’accuratezza dei dettagli utilizzati al fine di ricreare le atmosfere del romanzo con immagini verosimili, che stuzzicano i lettori più curiosi. In una lunga chiacchierata, Manara ci ha svelato alcuni particolari della sua opera. Milo Manara, a quando risale il progetto? E come si è svolto il processo di trasposizione a fumetti di un libro così denso di contenuti, che affronta disquisizioni filosofiche, dispute teologiche... «Ci sono voluti più o meno due anni di lavoro e l’operazione è stata quella purtroppo di tagliare e di cercare di individuare i punti salienti sul piano narrativo, conservando però la piacevolezza della lettura. Certo, ho sacrificato molto i dialoghi proprio perché esiste il romanzo per gustarli. Ho privilegiato l’azione, essendo il fumetto più adatto a raccontare le azioni piuttosto che i dialoghi». Quante volte ha letto il romanzo per arrivare a decidere cosa fosse più funzionale a questa godibilità di lettura? «Beh, la prima volta ovviamente quando è uscito, sono uno dei milioni di lettori di quel libro. Poi l’ho riletto quando mi è stata fatta questa proposta bellissima che non si poteva rifiutare ma che mi ha anche abbastanza spaventato. Perché oltre al libro c’è stato il film, che ha avuto molto successo e ha prodotto un suo immaginario figurativo. Moltissime persone hanno le immagini nella testa e quando pensano a Guglielmo da Baskerville vedono Sean Connery; quindi, il mio sforzo è stato provare a sostituire un altro immaginario figurativo a quello che già c’era e che era ormai sedimentato. Confrontando il romanzo con la pellicola ho visto che sono molto diversi in realtà: ho constatato che c’era qualcosa su cui lavorare senza fare un doppione del film. E poi l’ho riletto pagina per pagina al momento di scegliere i dialoghi e continuo a rileggerlo adesso che sto facendo il secondo volume. Lo passo con la lente d’ingrandimento guardando proprio le parole, perché già nel primo volume, appena uscito, tutte le parole riportate sono quelle del libro, io non ne ho cambiata una sola». Infatti i dialoghi sono esattamente quelli scritti da Eco. «Sì, è così. Un lettore mi ha detto che è andato a rileggere il libro perché gli erano sfuggite alcune cose presenti nel fumetto: voleva verificare se effettivamente ci fossero anche nel romanzo. E ha dovuto constatare che tutto quello che c’è nel fumetto è nel libro. Mi ha fatto molto piacere di aver messo in luce qualche dettaglio che può essere sfuggito nella lettura del romanzo». Il nome della rosa è un florilegio di citazioni, un libro che parla di libri che contengono altri libri. Confrontando romanzo e fumetto, il lettore attento si può rendere conto di come lei abbia riportato questa caratteristica del libro di Eco sul piano visivo, realizzando una versione grafica dove i segni contengono altri segni. Per esempio, si cita l’abbazia di Conques e troviamo in una grande vignetta il portale di Sainte Foy... «Guarda, mi fa davvero proprio molto piacere perché è esattamente l’operazione che ho tentato di fare. Mentre il libro era una citazione di libri, esattamente come hai detto tu, il fumetto doveva essere una citazione di segni, di disegni. Non è un’operazione di facile lettura, ma tu mi confermi che un occhio particolarmente attento lo percepisce». Tutti noi identifichiamo Guglielmo nel protagonista perché Sean Connery occupa la scena del film, ma la voce narrante è quella di Adso. «Esattamente. Nel romanzo Adso io l’ho visto subito come protagonista. Tra l’altro, recentemente, dopo che avevo finito il libro, ho saputo che il primo titolo che Eco aveva pensato era Adso da Melk». Da Il nome della rosa sono stati tratti un film e una serie tv. Adesso si aggiunge il fumetto. Qual è l’attualità di questo libro, perché continua ad attirare il lettore dopo tutti questi anni? «Non credo sia tanto la vicenda gialla in sé, ma tutto l’insieme di cose. Intanto il fatto di poter veramente gettare uno sguardo nel medioevo storicamente corretto e di trovarlo inaspettatamente sorprendente. Qua lo si illumina con una luce nuova e scopriamo un periodo divorato da una fantasia febbricitante, delirante: se noi vediamo i disegni dei marginalia ma anche tutta una serie di citazioni che fanno Guglielmo e gli altri monaci, si capisce che il medioevo non era per niente oscuro. Cercavano tutti, anche i non dotti, di supplire con una fantasia sfrenata alla mancanza di conoscenza. Le spiegazioni dei grandi temi, dell’incognito, tutto viene immaginato e descritto in modo favolistico; il rapporto con la natura era diverso; si attribuivano alla realtà quotidiana degli aspetti straordinari. Ciò che era sconosciuto veniva rappresentato in modo totalmente febbricitante, delirante. È un aspetto molto affascinante che poi ritroviamo un pochino più tardi in Hieronymus Bosch, che ancora non siamo riusciti a decifrare completamente. È un’idea completamente diversa dal medioevo che ci hanno proposto i romantici dell’Ottocento, da Mary Shelley a Poe a Lovecraft». Tuttavia, all’epoca qualcuno considerava eresia questo modo così libero e immaginifico di rapportarsi con la natura e di rispondere ai grandi interrogativi. Chi sono oggi i moderni inquisitori? «Gli inquisitori cominciano a essere – non vorrei esagerare – i politicamente corretti, per il fatto di obbligarti a stare continuamente attento, a sorvegliare qualsiasi parola tu dica, qualsiasi immagine tu faccia, qualsiasi gesto, comportamento: pena essere bollato come un sessista, un razzista, un poco di buono». L’abbiamo visto a Angoulême pochi mesi fa, con la questione Bastien Vivès, e anche con lei quando disegnò la Spider Woman in quella posa ginnica... «Io sono stato accusato di essere un maniaco sessuale; invece il caso di Angoulême è un po’ più grave dal punto di vista dell’autore, nell’accusa che gli è stata rivolta c’entra la pedofilia. Ecco, la pedofilia è innominabile, praticamente. Trovo che sia corretto: quando vengono coinvolti dei veri bambini è un crimine e deve pensarci la legge. Ma quando si tratta solamente di pensiero, perché il fumetto e la letteratura non sono realtà, io credo che non dovrebbe esserci censura di sorta. Sennò anche Nabokov deve essere censurato». Diciamo che oggi sarebbe più difficile pubblicare un fumetto come Il gioco. «Sì, credo proprio di sì. Entrando in queste società nuove, multietniche, multireligiose, la prudenza non è mai troppa: Charlie Hebdo docet. Bisogna adottare dei comportamenti che non prenderemmo spontaneamente. Bisogna sorvegliarsi, autocensurarsi. Non si può più girarsi per la strada a guardare una bella ragazza, bisogna tenere la testa diritta. Che poi, magari, un’occhiata senza farsi vedere... Però capisco il punto di vista delle donne, a parte la violenza che quella non si discute; ma anche il fastidio, la molestia: è una cosa odiosa. Certe autocensure da parte dei maschietti sono giustissime, sacrosante. Ma alla fine ogni rivoluzione divora sé stessa, come dimostra Robespierre finito anche lui sulla ghigliottina. Io penso che bisognerebbe stare attenti che non nascano altri piccoli Robespierre, altri piccoli Torquemada, che sono sempre più realisti del re».