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 2023  maggio 18 Giovedì calendario

I fondi anti-dissesto idrogeologico inutilizzati

Eppure i soldi ci sono. Sulla carta, ci sono. L’ennesima alluvione in Emilia-Romagna costringe di nuovo a fare i conti. E i conti dimostrano che contro il dissesto idrogeologico l’Italia può fare affidamento su una cassaforte di tutto rispetto. Otto miliardi di euro almeno le risorse nazionali. È la cifra stanziata dal piano "Italia sicura" del governo Renzi per intervenire in tempo contro alluvioni, frane e calamità naturali. Altri 2,5 miliardi di euro nel Pnrr, cui si aggiungono 6 miliardi destinati ai comuni, da spendere nel breve periodo: entro il 2026. Negli anni però la cassaforte è rimasta (quasi) chiusa.
I RITARDI
Diverse le cause. Burocrazia, inerzia politica, resistenze delle Regioni contro una gestione centralista e statale delle emergenze. Quelle Regioni che, si legge nell’ultimo rapporto sul dissesto idrogeologico della Corte dei Conti, hanno negli anni dimostrato dubbia «capacità progettuale» e «carenza di profili tecnici unitamente alla scarsa pianificazione del territorio». Memento per chi oggi chiede di inserire anche queste competenze nel mazzo dell’autonomia differenziata.
Poi c’è il vero nodo: la spesa. Il Paese più esposto in Europa - in Italia nove comuni su dieci hanno località a rischio alluvione - non riesce a spendere i fondi contro il dissesto. Tant’è che le risorse stanziate da Italia Sicura sono rimaste quasi tutte nelle casse dello Stato, dirottate altrove. La struttura e i suoi tecnici? Dismessa dal giorno alla notte dal governo Conte, che di contro ha varato un suo piano, "ProteggItalia" e stanziato altri 3,1 miliardi. Anche questi rimasti in gran parte inutilizzati. Né bastano a colmare il vuoto i miliardi del Pnrr che per i comuni fissa obiettivi tanto eterogenei quanto generici - alcuni devono essere centrati entro il 2023 - come «la messa in sicurezza del territorio, la sicurezza e l’adeguamento degli edifici, l’efficienza energetica e i sistemi di illuminazione pubblica». Di tutto e di più. Per mettere in sicurezza il Paese, questa la stima della struttura contro le emergenze messa in piedi da Renzi, servirebbero 30 miliardi di euro. Negli ultimi venti anni ne sono stati spesi circa 6. Con una media dei tempi di realizzazione per ogni opera di 4,7 anni. Un’eternità.
E infatti, svela l’ultimo rapporto di Rendis ((Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo), la piattaforma che aggiorna di continuo gli interventi contro il dissesto idrogeologico, solo due cantieri su tre fra quelli che sono stati già finanziati è concluso. Su un totale complessivo di 6063 interventi finanziari, «circa il 66% (3.983) risulta concluso, l’11% (672) e in esecuzione, l’8% (509) e in fase di progettazione, mentre un 15% circa degli interventi (899) risulta da avviare o con dati non comunicati». Omissioni, meline e ritardi si pagano, a caro prezzo. Il caso del Misa, il fiume che scorre nelle Marche e lo scorso settembre è esondato in un’alluvione che ha ucciso dieci persone, è il paradigma perfetto di questo grande stallo italiano. Negli anni gli allarmi si sono sprecati. Già nel lontano 2009 la Regione riteneva «urgente e prioritario» mettere in sicurezza le aree più a rischio esondazione del fiume. Rimozione dei detriti, rafforzamento degli argini, vasche di espansione e paratie. In quindici anni, tra rimpalli fra regione, provincia e comuni e gare bloccate da inchieste giudiziarie, solo 4 chilometri del fiume vengono messi in sicurezza. Totale dei fondi spesi: 4,5 milioni di euro. Insufficienti per prevenire il disastro che lo scorso autunno ha fatto sparire sott’acqua Senigallia lasciando 150 sfollati.
I PRECEDENTI
È uno spartito che si ripete, da Nord a Sud. Anche nel Lazio decine di opere contro il dissesto vanno avanti a rilento. O non vanno avanti affatto. Succede nella provincia di Latina e nei tanti piccoli centri che rischiano di sgretolarsi sotto le piogge torrenziali, incluse località turistiche come San Felice Circeo e Monte San Biagio. Lo stesso vale per la Liguria, che alle spalle ha 70 anni di alluvioni e morti per calamità naturali, rimaste indelebili nelle cronache come nelle canzoni di De Andrè. A Genova, per mettere in sicurezza il Bisagno, il fiume interrato nel 1929 ed esondato innumerevoli volte, ci sono voluti due lotti e quindici anni di attesa. Un’eccezione, si dirà. Ma in Italia è quasi una regola e con queste regole restare a galla è un’impresa.