La Stampa, 18 maggio 2023
Ancora sulle mamme tigre
Sembrano passati secoli dal mito della Tiger Mom, come la scrittrice Amy Chua definiva nel 2011 il tipo di pedagogia cinese nel suo libro “Il ruggito della mamma tigre” diventato un caso culturale. Quel tipo di madre che, se la figlia non imparava una complicatissima composizione per pianoforte per il giorno successivo, minacciava di dare via la sua adorata casa delle bambole. Quel tipo di madre che sosteneva che le «uniche attività che dovrebbero essere consentite ai figli sono quelle in cui possono eventualmente vincere una medaglia, e quella medaglia deve essere d’oro». Sembrano passati secoli, oggi che la discussione sulla scuola, in Usa ma anche in Italia, nelle scuole inferiori così come nelle università, riguarda i troppi compiti, lo stress eccessivo a cui sono sottoposti gli studenti, l’ansia da prestazione a cui sono assoggettati. Dalla mamma tigre al padre orsacchiotto, verrebbe da dire, se a prendere le difese degli studenti e contro un certo tipo di educazione troppo rigida e volta solo al successo ci pensa lo scrittore Adam Gopnik. In un articolo sul New York Times intitolato “Cosa perdiamo quando spingiamo i nostri figli ad avere successo” Gopnik illustra una differenza fondamentale tra l’avere successo e la realizzazione personale, il primo come meccanismo guidato dal volere altrui, il secondo come frutto delle nostre passioni. Partendo da un ricordo personale ovvero di quando, all’età di 12 anni, digiuno di musica, imbracciò la chitarra e imparò da solo a suonare gli accordi di Rain, Love Me Do e di Yellow Submarine traendone una soddisfazione mai provata prima, Gopnik scrive che «il successo è il completamento del compito imposto dall’esterno, la cui ricompensa è spesso un percorso verso il successo successivo. La realizzazione è il punto finale di un’attività avvolgente che abbiamo scelto, la cui ricompensa è l’improvvisa corsa all’appagamento, il senso di felicità che sorge unicamente dall’assorbimento in una cosa al di fuori di noi stessi».In questa visione dicotomica, la società odierna denigra la realizzazione a favore del lavoro meccanico di realizzazione, soprattutto per quanto riguarda i giovani, perennemente spinti verso l’ennesimo test, l’ennesima sfida, spesso sotto forma di un’altra scuola, un altro corso. «Guidiamo questi giovani verso il successo, compiti che portano solo ad altri compiti, in qualcosa che assomiglia non tanto a una corsa quanto a un labirinto di topi, con un’altra dose di acqua zuccherata che attende dietro la curva ma senza che il percorso verso il centro – o il punto di tutto – sia mai stato chiaro». Andare incontro alle proprie passioni, invece, oltre al senso di soddisfazione personale, può far scoprire vere e proprie vocazioni, dice l’autore, portando come esempio qualche amico e il suo stesso figlio che, appassionato da bambino dei giochi di magia con le carte del mago Dai Vernon a causa del quale trascurava i compiti, si è ritrovato da adulto ad appassionarsi di filosofia e a conseguire una laurea in quella materia.«La realizzazione autodiretta, non importa quanto assurda possa sembrare agli estranei o quanto parziale possa essere, può diventare un fondamento del nostro senso di sé e del nostro senso di possibilità. Perdendoci in un’azione totalizzante, diventiamo noi stessi». È anche vero che a un certo punto, ogni realizzazione, per quanto autodiretta, deve diventare professionale, redditizia, reale. Non possiamo giocare con carte o dilettarci a imparare la chitarra per sempre. Ed è anche vero che molte delle cose che si chiede agli studenti di imparare obbligatoriamente possono portare alla scoperta di sé. «Se ben istruiti, possono imparare ad amare le cose nuove e inaspettate per il loro bene», scrive Gopnik. Il trucco, quindi, è come si insegnano le cose: «Se insegnassimo ai nostri figli il softball nel modo in cui insegniamo loro la scienza, odierebbero il softball tanto quanto odiano la scienza, ma se insegnassimo loro la scienza come insegniamo loro il softball, con la pratica e l’assorbimento, potrebbero amare entrambi».Non solo, il perseguimento di un compito, se fatto con ostinazione e passione, genera una sorta di oppiaceo cognitivo che non ha equivalenti e questo è un meccanismo che funziona a qualsiasi età, non solo nell’età della scuola. «L’hobbista o il pensionato che seguono un corso di batik o di yoga e che potrebbe essere facilmente trattati con condiscendenza da persone di successo, hanno in realtà nelle loro mani del carburante indistruttibile», chiosa Gopnik. «Il bellissimo paradosso è che perseguire cose che magari facciamo male produce un senso di assorbimento che è tutto ciò che è la felicità, mentre persistere nel fare cose che già facciamo bene, non è detto che ci renda felici».