Il Mattino, 17 maggio 2023
Su "Storia della pizza. Da Napoli a Hollywood" di Luca Cesari (il Saggiatore)
Le prime pizze non sono state napoletane e non è napoletana quella più diffusa al mondo, la margherita. Calma e gesso, procediamo con ordine. A detta di Torquato Tasso, fra l’altro di origini sorrentine, chi alla fine del Cinquecento vuole gustare una buona pizza deve andare a Mantova. Un secolo dopo un famoso agronomo bolognese, Vincenzo Tanara, nel segnalare le città italiane dove poter gustare le migliori pizze della penisola, indica Roma, Firenze, Bologna e non fa alcun cenno a Napoli. Con l’espressione “tipica pizza alla napoletana” si intende, a leggere il ricettario di Bartolomeo Scappi del 1570, una pietanza il cui ingrediente fondamentale è, udite udite, la polpa di piccioni, “tre mez’arrostiti alla spedo, prive di pelle, ossa et nervi, e tre alessati”. Si pesta il tutto con il mortaio aggiungendo poi midollo di bue, marzapane, datteri. Dopo alcuni decenni la ricetta cambia e per “pizza alla napoletana” si intende una crostata di pastafrolla ripiena di crema alla ricotta profumata alle mandorle, come sottolinea Pellegrino Artusi in La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. La pizza salata all’epoca è una, quella “alla lombarda”: lo sostiene anche un famoso cuoco, napoletano, come Giovan Battista Crisci. Tutto cambia solo nel 1773. È dato alle stampe il trattato culinario di Vincenzo Corrado, allora “capo dei servizi di bocca” presso Michele Imperiali, principe di Francavilla nel suo Palazzo Cellamare. Anche se non usa la parola pizza, “Corrado descrive un’interessante ‘torta alla napoletana’ con evidente anticipo sui tempi”, sottolinea lo storico della gastronomia, di origini bolognesi, Luca Cesari in Storia della pizza. Da Napoli a Hollywood (il Saggiatore, pagine 352, euro 19). La ricetta, da considerarsi a questo punto epocale, è giusto sia riportata per intero: “Fettate le provature (che poi sarebbero le mozzarelle, ndr), ed unite con ricotta, provola grattata, presciutto in fette, salsiccie, panzetta di porco fettata, uova sbattute, pepe, e cannella, si metterà tutto mescolato tra la pasta sfogliata, si farà cuocere, e si servirà”. Cesari commenta: “Pur non chiamandosi pizza, questa ricetta diventa a pieno titolo la capostipite delle pizze ripiene o pizze rustiche che verranno riprese in seguito da altri autori e portate fino ai giorni nostri”. Da questo momento in poi la pizza, nella sua evoluzione fino ad assumere le caratteristiche che ancora oggi la identificano, sarà considerata tipica di Napoli, ma non è proprio così. La margherita era “solo una delle tante tipologie napoletane, e nemmeno la più famosa”: quelle più diffuse e apprezzate “erano bianche e a base di strutto e minutaglie di pesce come gamberetti e vongole, alimenti poveri e facilmente reperibili”. Sbarcata in America, la pizza si è trasformata diventando solo quella rossa, con formaggio e pomodoro, accoppiata vincente già rodata nel condimento degli spaghetti, diventando piatto nazionale americano. “La pizza diffusa oggi nel mondo, inclusa quella italiana e napoletana, è quella americana. Gli stili napoletani delle origini prevedevano una pasta più alta, dimensioni contenute e soprattutto farciture che oggi sono completamente scomparse”. È questo il motivo per cui la pizza rivista all’americana ha conquistato ogni angolo della Terra, dopo il 1945, e non è rimasta un piatto locale come le piadine o i tacos, così che noi oggi, “con una battuta, possiamo dire che la pizza è una piadina che ce l’ha fatta”. E pensare che la prima volta che gli americani non di origini italiane hanno sentito parlare di pizza è stato nel 1861 in un articolo del Boston Evening Transcript in cui è descritta come “la prelibatezza preferita dai napoletani che si prepara e si mangia solo tra il tramonto e le due o le tre del mattino e deve essere cotta in cinque minuti nel forno”.