la Repubblica, 17 maggio 2023
Intervista a Guido Barilla. Parla di suo padre
Sono passati trent’anni (19 settembre 1993) dalla morte di Pietro Barilla, e centodieci dalla nascita (16 aprile1913). Non è stato solo l’uomo che ha costruito – a Pedrignano, nel 1968 – uno stabilimento che è tuttora il più grande pastificio del mondo. È stato l’uomo che ha cambiato la comunicazione commerciale in Italia; l’uomo che ha ingaggiato Mina, Dario Fo e Giorgio Albertazzi per dire agli italiani che «con pasta Barilla è sempre domenica», e che «dove c’è Barilla c’è casa». A Parma ancora lo chiamano «il signor Pietro»: non dimenticano il bene che ha fatto alla città. Guido Barilla, classe 1958, il suo primogenito, è presidente dell’azienda, che conduce con i fratelli Luca (1960) e Paolo (1961).
Siamo proprio nello stabilimento di Pedrignano. Decine di manifesti pubblicitari e di opere d’arte ricordano che qui non si è fatto solo business.
Guido, che uomo era suo padre?
«Non posso dirle che uomo era se prima non le dico che bambino e che ragazzo era stato».
Cominciamo dal bambino.
«Quando aveva 6-7 anni ebbe una pleurite e fu mandato a curarsi ad Alassio, in un collegio. Tenga conto che Parma-Alassio allora era come Parma-Shanghai oggi: non vedeva quasi mai i genitori. Poi andò a Firenze a studiare in un collegio degli Scolopi. I Padri avevano cura dei ragazzini, ma era un regime religioso-militare. Papà raccontava che c’erano le sbarre alle finestre».
Non un gran incentivo per proseguire negli studi.
«Quando uscì cercò qualcosa di diverso. Il nonno lo mandò a Stoccarda a una scuola commerciale. Lui tornò e diventò uno dei venditori di pane e pasta. Il nonno li mandava nei negozi in moto. Anche quella era una novità».
Poi arrivò la guerra.
«Il papà finì in Russia. Due anni.
Tornò in licenza ma sarebbe dovuto ripartire per il fronte. Alla stazione di Trieste incontrò un ufficiale medico al quale, un anno prima, aveva regalato un vaso di miele. Questo ufficiale gli disse: “Pietro, se vai ancora in Russia, non torni più a casa”. Gli fece ingoiare un uovo crudo intero e poi gli fece una radiografia allo stomaco. Si vedeva un bollo nero.
“Potrebbe essere qualcosa di brutto”, disse poi l’ufficiale medico, e lo mandò a casa. Mio padre raccontava sempre questo episodio per far capire quanto la vita restituisca sempre un gesto di generosità. Un vaso di miele gli aveva salvato la vita».
Poi c’è il difficile dopoguerra.
«Soprattutto qui in Emilia furono tempi pericolosi. Il papà fu accusato dai partigiani perché l’azienda aveva continuato a produrre sotto il fascismo, e dai fascisti per avere aiutato i partigiani. Erano vere tutte e due le cose. Ma ecco, le racconto tutto questo per dirle che il papà, quandonel 1947 prese la guida dell’azienda con suo fratello Gianni, era un uomo provato dalla vita».
In che cosa avevano influito queste prove?
«Avevano fatto di lui un soldato nell’anima e nel cuore. Il papà aveva un grande senso della disciplina e dell’onore».
Come stava allora l’azienda?
«Era sventrata. E qui nasce la seconda figura di Pietro Barilla, imprenditore moderno. Aveva due grandi qualità: un coraggio da leone e un’enorm<e curiosità. Un enorme interesse verso quello che non sapeva. Mio padre era innamorato di coloro che sanno».
Da qui la frequentazione con artisti e intellettuali. Chi ricorda?
«Prima le voglio dire come nacquero quelle frequentazioni. All’inizio degli anni Cinquanta il papà era andato negli Usa e aveva scoperto due cose:l’importanza del pacco e la pubblicità».
L’importanza del pacco?
«Ma certo. A quell’epoca in Italia la pasta si vendeva ancora sfusa. Il marchio non contava niente. Il papà andò in Germania con l’ingegner Manfredo Manfredi, il suo principale collaboratore, manager straordinario, per acquistare una macchina per fare i pacchi. Decise di acquistarne sette. Manfredi gli disse: “Signor Pietro, non possiamo, è un investimento enorme”. Lui le comprò, tornò a casa, chiuse il panificio e si mise a produrre solo pasta impacchettata».
E lì ci volevano gli artisti per fare la pubblicità.
«“Con Barilla è sempre domenica” è la prima di successo. La fece con Erberto Carboni, grafico, suo grande amico».
Chi erano gli amici del signor
Pietro?
«Quelli che erano stati in guerra con lui: i parmigiani Lavezzini, Tragni che aveva un negozio di sport, Spaggiari che faceva il macellaio. E poi Baldo Bertoli, giornalista, ex partigiano, ipercomunista. Il regista Valerio Zurlini, Romolo Valli, Walter Chiari».
Lei chi ricorda bene di questi amici?
«Walter Chiari. Veniva spesso a casa nostra, ci rimase a lungo quando uscì dal carcere. Mio padre era affezionatissimo a lui. Insisteva per fargli mangiare le cose parmigiane e lui diceva: questo piatto mi resta tre minuti in bocca, tre ore sullo stomaco, trent’anni sui fianchi. Cercava di convincere mio padre a mangiare la lecitina di soia. Ma poi mangiava anche lui i tortelli d’erbetta».
Nella vostra casa di Cortina ricevevate grandi artisti e uomini di cultura. Chi ricorda?
«Indro Montanelli. Era il compagno di mio padre nelle camminate di montagna. Qualche volta veniva anche Dino Buzzati».
Che ricordo ha di Montanelli?
«Loricordo come un uomo molto severo. Avevo soggezione di lui».
Enzo Biagi?
«Molto più bonario».
Enzo Ferrari?
«Un altro grande amico del papà.
Avevano un legame che trascendeva totalmente l’interesse. Il papà aveva una grande passione per le auto e ci portava ogni tanto a Maranello. La passione di mio fratello Paolo, che ha fatto il pilota, nacque allora».
Che rapporto aveva con Gianni Agnelli?
«Si salutavano, si vedevano qualche volta. Ma non si frequentavano. Mio padre lo chiamava Il Re».
Com’era suo padre negli otto anni in cui la Barilla era diventata di proprietà di un gruppo americano?
«Stava male. La Barilla per lui non era solo un’azienda. Era un sentimento.
Una vocazione. Diceva: è il sangue che scorre nelle mie vene. Lo vidi straordinariamente felice il giorno in cui riuscì a ricomprarla. Credo sia stato il giorno più bello della sua vita».
È vero che Cuccia gli sconsigliò il riacquisto?
«È vero. Gli disse: “Barilla, lei ha davanti un serie di semafori rossi”. Ci aiutò Francesco Cingano, del Credito Italiano».
E che padre era il signor Pietro?
«Estremamente severo. La disciplina dei figli era fondamentale. Ma si è occupato di noi in modo totale. Ed era affettuosissimo. Nei suoi ultimi anni questo affetto è diventato straordinario. Per me, Luca e Paolo».
Berlusconi una volta ha detto che fu suo padre a dirgli di entrare in politica.
«Io non l’ho mai sentita. Ma non posso escluderlo. Non mi sento di dire che non sia vero. Erano amici».
Guido, lei parla con suo padre?
«Ogni giorno. È una presenza costante nella mia vita».
Lo sogna di notte?
«Molto spesso. Appare sempre molto giovane, ed è sempre lungo una camminata. Mi indica un sentiero».