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 2023  maggio 17 Mercoledì calendario

Biografia di Edwige Fenech

In principio a Edwige Fenech ho chiesto quante vite ha avuto. «Più dei gatti», ha risposto. Abbiamo provato a contarle e ci siamo perse. Grossomodo: bambina francese di madre italiana e padre maltese nata benestante in Algeria; poi, profuga e povera in terra di Francia; modella; attrice icona di film erotici italiani; attrice di film d’autore; star della domenica e del sabato sera tv; produttrice di fiction e di film di successo, divorziata a 17 anni e ragazza madre a 19; signora della Roma bene quando è stata compagna di Luca di Montezemolo; «esule» in Portogallo dal 2015 e ora di nuovo al cinema con Pupi Avati, con un film, fra l’altro, primo al botteghino fra gli italiani.
Se le chiedo l’inizio di tutto?
«Quando a 14 o 15 anni, alta già come adesso, vengo fermata per strada, a Nizza, per dire una battuta in un film. Era Toutes folles de lui di Norbert Carbonnaux. Dovevo dire una parola che non conoscevo e non capivo e mi fecero rifare il ciak 32 volte: una figuraccia tremenda. La parola era “mantenuta”: “vuoi fare di me la tua mantenuta?”. Mamma era con me, ma neanche lei sapeva che cosa significasse. Pensai che non avrei mai rimesso piede su un set».
Invece, ha fatto una settantina di film da attrice, molti da star della commedia sexy, e una trentina da produttrice. Perché cambiò idea?
«Facevo l’indossatrice e, a 18 anni, vinsi il concorso di Lady Francia. Da lì mi portarono alla finale di Lady Europa a Cortina, dove arrivai seconda. Di nuovo, un agente mi fermò per offrirmi un ruolo, ma io e mamma ce ne tornammo a casa. Poi, arriva un telegramma: contratto pronto da firmare a Roma stop. Ci ritrovammo a Cinecittà, un mondo a noi totalmente estraneo, io non parlavo italiano. Mi dissero di firmare dove c’erano le crocette. Il film era Samoa regina della giungla. Avevo capito solo che sarei stata una specie di Tarzan in gonnella. Tutte le mattine, mi spalmavano di crema marrone. La sera, per ripulirmi, mamma impiegava un’ora e mezzo».
Come era la Edwige bambina in Algeria?
«Timida, giocavo poco con gli altri bambini, leggevo tanti libri, studiavo danza classica. Ho ricordi stupendi di spiagge e di strade romane coperte dall’acqua. Ricordo le pinne e la maschera bianche, piccole piccole, con le quali stavo sempre in mare a nuotare. Quando l’Algeria non è più stata francese, siamo andati in Francia, ma non ci volevano: non eravamo i benvenuti né lì né in Algeria, non avevamo più una casa. Papà ci ha messo dieci anni per mettersi in regola coi permessi, aprire un garage».
Perché dal 2015 vive in Portogallo?
«Ho sentito il bisogno di cambiare aria. Ero un po’ delusa da come andava la carriera: non mi vedevo in Italia ad aspettare che arrivasse un ruolo giusto per me. La scelta è caduta sul Portogallo perché avevo visto un documentario, sono andata a visitarlo e mi è piaciuto. Ci ho portato la mamma e la gatta. E mio figlio Edwin con la moglie e i bambini l’hanno amato tanto e, quando hanno lasciato Shanghai, sono anche loro venuti a vivere qui. Sono uscita di scena al momento giusto e volevo tornare nel modo giusto. In questi anni, ho rifiutato tante proposte. Ma era importante tornare solo se potevo esprimere qualcosa di forte. Quando mi ha chiamato Pupi Avati per La quattordicesima domenica del tempo ordinario, non potevo crederci».
Mi racconti la telefonata.
«Pupi si sveglia presto, come me, ma mi ha chiamato senza tener conto dell’ora in meno di fuso orario. Dovevano essere le cinque del mattino. Riconosco subito la sua voce. Penso: vorrà un’informazione. Invece, dice: ti devo raccontare una storia. Ascolto, mi commuovo. Era il copione che aspettavo da anni. Dopo, attacco il telefono e stavo stesa a letto con la gatta sulla pancia. Pensavo che doveva essersi ricordato di certi miei film drammatici che non sono i primi che vengono in mente pensando a me. Mi alzo e comincio a saltare per tutta la stanza con la gatta che saltava anche lei. Vado da mamma gridando: mi ha chiamato Pupi. Sembravo una ragazzina piuttosto che una signora della mia età».
Gli anni sono 72, lei recita coi capelli corti, dimessa, ed è bellissima e intensissima. Che cosa l’ha conquistata di Sandra?
«La sua voglia di libertà e indipendenza: non avrebbe dovuto sposarsi. Invece lo fa con questo Marzio, un sognatore che non cambierà mai e invecchierà continuando a cercare il successo come musicista».
Quella voglia d’indipendenza è stata anche sua, da ragazza?
«Nella prima parte della vita, sì. Sandra che vuole affermarsi come modella e donna sono io, anche se Pupi non l’ha scritta per me, ma per sua stessa ammissione pensando all’inferno che ha fatto vivere alla moglie perché era geloso».
E lei la gelosia l’ha subita?
«Col mio primo marito: io 17 anni, lui 26. Matrimonio durato 14 mesi. Credo, appunto, che avessi voglia di libertà, indipendenza, ma non fu così per niente: lui si rivelò gelosissimo. E quando scoprii che aveva anche un’amante me ne tornai a casa da mamma e papà».
Fu altrettanto netta quando decise di avere suo figlio Edwin da sola.
«Avevo 22 anni, ero incinta, volevo quel bambino, ma rispetto il pensiero del prossimo e non avrei mai obbligato suo padre a fare il padre».
Aveva anche una carriera agli inizi, non temeva di non lavorare più?
«Certo che sì, non sono un’incosciente. E in quel periodo ho avuto dimostrazione di persone pessime: un orrendo produttore che rimandava il film da due anni s’inventò che voleva girare in quel momento lì e mi fece causa per inadempienza contrattuale. Ma ho avuto anche la fortuna di incontrare persone belle. Il produttore Luciano Martino, col quale poi mi fidanzai, arrivò con un contratto per tre film che mi salvò la vita. Mi fece sentire una leonessa».
Lei quando ha capito che piaceva e che piacere era una risorsa?
«Ci ho messo molto tempo, purtroppo. Mamma mi ripeteva: perché sei piena di complessi, perché? E io: perché le altre sono tutte più belle di me. Quando mi stabilii in Italia, avevo 19 anni, ma la testa di una bambina».
Girava anche sette, otto film l’anno, era solo per soldi?
«Avevo bisogno di lavorare e non ero schizzinosa, anche perché in Algeria non esisteva la distinzione tra film di serie A e di serie B».
Quante docce ha fatto nei film?
«Preferivo le docce alle scene d’amore. Dopo ho avuto la fortuna di cambiare carriera, ma non rinnego niente: alcuni film cosiddetti erotici erano carini, ben fatti, con attori bravissimi».
Me ne dica due.
«Titoli a parte, Giovannona Coscialunga disonorata con onore o Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. In ogni caso, grazie a quella gavetta ho poi fatto quattro film con Steno, Cattivi pensieri con Ugo Tognazzi, Sono fotogenico di Dino Risi, Il ladrone di Pasquale Festa Campanile e, in teatro, D’amore si muore, di Giuseppe Patroni Griffi. È così per tutti gli attori: nessuno arriva subito al film geniale. È un mestiere in cui dipendi sempre da altri».
È per essere padrona del suo destino che nel 1999 diventa produttrice?
«Esattamente, ma ho recitato solo nei primi due film. Dopo, ho preferito imporre altre donne, perché, per me, impormi era stato difficile. La carriera da produttrice mi è piaciuta, anche se per le preoccupazioni non dormivo la notte. Non ho avuto le porte che si aprivano da sole, ma ho dovuto spalancarle a testate».
Le rivincite che l’hanno gratificata di più?
«Il successo di Commesse, che la Rai aveva tenuto due anni nel cassetto temendo che una storia di sole donne non piacesse. E altre serie tv come Le madri, Delitti privati e anche dei film che hanno avuto risultati clamorosi».
Che cosa la colpì di Al Pacino quando produsse il Mercante di Venezia di Michael Radford?
«I suoi occhi netti e profondi che avevano dentro un mondo, mentre eravamo a tavola seduti una di fronte all’altro».
Un rimpianto?
«Non aver fatto la Gradisca di Federico Fellini in Amarcord. Mi portava a pranzo dalla sua cuoca, Ubalda, per cui lui mi chiamava Ubaldina, e mi diceva: Ubaldina, devi ingrassare per il film. Alla fine, prese Magali Noël, più matura e formosa di me. Ma io non riuscivo a ingrassare: ero giovane, bruciavo tutto quello che mangiavo».
Con Quentin Tarantino è rimasta in contatto dopo il cameo in Hostel 2?
«Sì, anche se è tanto che non ci vediamo. Fu lui a cercarmi mentre era al festival di Venezia, io giravo un film da produttrice, andai da lui in jeans, in uno stato pietoso. Conosceva tutti i miei film inquadratura per inquadratura».
Lei che cosa pensò quando scoppiò il MeToo?
«Che finalmente qualcuno denunciava. Ai miei tempi, la parola di una ragazza non aveva valore. A me è successo più volte di essere molestata da chi aveva il potere di farmi lavorare e non ho denunciato: chi mi avrebbe creduto? Però, anche in situazioni pesanti in cui ho corso il rischio di essere violentata, sono riuscita a uscirne indenne: ho un riflesso col ginocchio che è una roba micidiale. Alle attrici di oggi consiglio di mirare col ginocchio dove sappiamo».
E quanto erano vere invece le leggende sui corteggiatori che le regalavano Maserati o mandavano elicotteri che lei rifiutava?
«Sono cose di una vita fa... Un armatore greco aspettò a lungo il mio arrivo in porto, che non ci fu mai. E ho avuto casa riempita di rose antiche, non ci si camminava e il profumo stordiva».
L’armatore era Stavros Niarchos. E lo spasimante delle rose?
«Non lo dirò mai».
Ha più amato o è stata più amata?
«So di avere amato e credo che tutti abbiamo sempre l’impressione di essere quelli che amano di più, però magari era 50 e 50».
Oggi, è single?
«Lo sono da una decina d’anni, perché così ho voluto, ma non metto limiti alla provvidenza».