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 2023  maggio 17 Mercoledì calendario

Intervista ad Alberta Basaglia. Parla di suo padre

Cosa ha voluto dire chiamarsi Basaglia?
«Accettare che tuo padre non è solo tuo, ma lo è di tante persone».
Di tutti i suoi pazienti psichiatrici?
«Dei matti sì, ma anche di tutte le persone che hanno lavorato con lui e di quel mondo che si è riconosciuto nella sua lotta».
Alberta, lei li chiama matti?
«Le parole hanno il senso che gli si dà. I matti sono matti, non è un’offesa. È uno stato».
Glielo ha insegnato suo padre Franco? Lo psichiatra che i matti li ha liberati chiudendo i manicomi?
«L’ho capito vivendo semplicemente nella mia famiglia. Mio padre non me lo ha dovuto insegnare».
Che vuole dire?
«Non ha mai avuto bisogno di prendermi da parte e insegnare quello che stava succedendo. Lo vivevo, appunto».
Stava succedendo una rivoluzione,  lei capiva questo?
«Da bambina, da adolescente non è stato così chiaro. Capivo però che quello che stavo vedendo era una cosa strana di cui si parlava tanto anche fuori casa».
Cosa stava vedendo? I matti?
«Sì, quelli slegati, liberati quando mio padre è riuscito ad aprire il manicomio di Gorizia».
E gli altri?
«Prima che i muri e le reti fossero abbattute non li ho visti. Mio padre non ha voluto che vivessimo dentro il manicomio di Gorizia, il primo che ha diretto. Era prassi per i direttori dell’epoca vivere nei manicomi, lui si è opposto».
Lei era troppo piccola?
«Era troppo brutto quello che c’era in quel manicomio Persone legate, nude, buttate in un angolo. Un orrore che mio padre ci ha risparmiato. Il problema non erano i matti, ma come venivano trattati. I matti liberati, infatti, poi hanno girato tranquillamente per casa nostra».
Che effetto le facevano?
«Da bambina avevo paura. Erano brutti. Erano persone a cui era stato tolto tutto. Non avevano denti, spesso erano persone molto grasse. Però in questo caso mio padre una cosa importante me l’ha insegnata».
Cosa?
«A non aver paura della paura».
È stato un padre affettuoso?
«Sì, molto. Ma è sempre stato coinvolto dal suo lavoro, da quanto stava facendo. Era molto chiaro che la vita della nostra famiglia corrispondeva alla rivoluzione che andava montando».
L’ha mai aiutata a fare i compiti?
«Succedeva molto di rado. Comunque c’erano tante altre persone che poi potevano aiutarmi nei compiti».
Chi?
«I tanti che lavoravano con lui. Che stavano sempre in casa nostra. La legge 180 viene chiamata legge Basaglia, ma bisogna precisare che è frutto di un bel gruppo di lavoro discusso sui nostri divani. Non l’ha scritta lui».
Ha un ricordo emotivo di suo padre?
«Faccio fatica a condividere cose private».
Come mai?
«L’ho già detto. Ho avuto una gran fortuna ad avere avuto questi genitori, c’è un posto importante anche per mia mamma Franca. Ma poi mi sono dovuta rendere conto che mio padre non era solo mio, non poteva esserlo. Il nostro privato era condiviso».
D’accordo. Ma almeno un ricordo tutto suo dell’adolescenza lo avrà.
«Le gite in macchina. Quelle erano i momenti in cui si poteva stare finalmente con mamma e papà. E con papà avevamo un gioco tra noi».
Quale?
«La musica, in macchina l’ascoltavamo di tutti i tipi, classica o pop. io e papà facevano il gioco della prima nota. Dalla prima nota dovevamo capire se era Mozart, Bach, Caterina Caselli, Dik Dik».
A suo padre piaceva la musica?
«Si, è sempre stata una presenza in casa, il tramite del rapporto».
Che ricordo ha del Sessantotto? Come lo ha vissuto?
«Non l’ho vissuto, non avevo niente da contestare. Mio padre poi era diventato un’icona del Movimento, neanche la possibilità di contestare l’autorità paterna».
Nemmeno dopo ha mai contestato suo padre?
«Forse non ho avuto il tempo. È morto che avevo ventiquattro anni. Non sono pochi, però io all’epoca ero ancora molto figlia».
Un’icona del Movimento, un uomo molto famoso: possibile che sia stato così facile accettare che suo padre non fosse soltanto suo?
«È stato un percorso».
Mai stata gelosa?
«Sì, aveva intorno tante studentesse, spesso belle».
Che ricordo ha di Marco Cavallo?
«Un’emozione fortissima. Ho contribuito a costruire quel cavallo azzurro di cartapesta insieme a mio cugino artista, Vittorio Basaglia».
Quel cavallo ha guidato la folla dei matti che uscivano dal manicomio di Trieste.
«Era il 1973, cinque anni prima dell’approvazione della legge 180. All’epoca vivevo a Venezia, non con mio padre a Trieste, ma di quello che succedeva lì sapevo tutto».
Perché scegliere come simbolo Marco Cavallo?
«Perché esisteva davvero, era un cavallo che portava dentro e fuori la biancheria da lavare. I matti lo avevano chiamato Marco, era un retaggio del manicomio chiuso. Farlo uscire con la folla voleva dire suggellare la rivoluzione».
Il 13 maggio 1978 il Parlamento approva la legge 180. Si brinda in casa Basaglia?
«Nessun brindisi».
Come mai?
«Era troppo vicino al ritrovamento del cadavere di Moro, il 9 maggio. La legge era stata varata di corsa per evitare il referendum».
Secondo lei qual è la forza della legge?
«Aver sancito che in un paese democratico non è possibile pensare di tenere nascosta una persona malata. L’importanza di quella rivoluzione è stata costringere la società a farsi carico dei malati e delle loro famiglie. E c’è un punto fondamentale che troppo spesso viene dimenticato».
Quale?
«La legge 180 non ha soltanto chiuso i manicomi. Ha previsto che per le persone con sofferenza psichica venissero create strutture, disseminate nei territori, in grado di dare risposte di salute».
Lei è una psicologa, mai pensato di fare la psichiatra?
«L’aria che avevo respirato in casa mi era entrata dentro e non era mai più uscita. Ma ho voluto mettere una distanza da mio padre. Non mi sono mai occupata di salute mentale. Ho seguito i problemi di bambini e di donne vittime di violenza, entrambi non vengono ascoltati. Come succedeva ai matti prima».
Nessuno ascolta i bambini?
«Non vengono ascoltati i loro pensieri. I bambini hanno un punto di vista importante: sono più bassi e guardano il mondo da un’altezza diversa dalla nostra. Ne avrebbero di cose da dire».
Che commento ha fatto suo padre il giorno della discussione della sua tesi di laurea?
«Non ho voluto che venisse».
Perché?
«Mi sembrava davvero troppo avere Basaglia seduto in prima fila ad una laurea in psicologia».
Quindi nessun commento di Franco Basaglia alla sua laurea?
«Mi ha mandato un mazzo di fiori e un telegramma: “Brava papà».
Si è emozionata?
«L’ho messo dentro al portafoglio. Tre mesi dopo mio padre è morto».
L’ha conservato quel telegramma?
«Il portafoglio me lo hanno rubato».