Corriere della Sera, 17 maggio 2023
Il piano di Mika
Il pianoforte, a casa mia, c’è sempre stato. Dapprima marrone, un piano verticale noleggiato in un negozio del 13° arrondissement. Avevo cinque anni e vivevamo a Parigi. Su insistenza di mia madre, le mie sorelle e io abbiamo tutti preso lezioni di pianoforte. Fu allora che due signore entrarono nella nostra vita, due sorelle sulla sessantina, approdate in Francia dall’Est Europa a pochi anni l’una dell’altra. Una portava i capelli in una crocchia tirata e lucida; l’altra li lasciava sciolti, lunghi e selvaggi. Bevevano il caffè e ogni loro gesto sembrava sincronizzato, in una specie di contrappunto orchestrato di cenni, sguardi e accenti. Una cominciava una frase esattamente una battuta prima che l’altra avesse finito di parlare: parole e segni esistevano soltanto all’unisono. Se avessero voluto fare altrimenti, sarebbero parse incoerenti e forse un po’ folli: era l’insieme a tenerle in equilibrio.
Una sincronia, la loro, che veniva esaltata da un insolito metodo di insegnamento. La sorella dello chignon si sedeva alla mia destra e si occupava esclusivamente della mia mano destra, mentre quella dalla chioma selvaggia si sedeva a sinistra e pensava a quel lato. Ognuna si rivolgeva alla mano di cui si era incaricata, e talvolta la mano parlava per loro, la sinistra alla destra, arrivando a chiederle di fare questo o quello.
Pare surreale, lo ammetto, ma era l’unica versione di una lezione di pianoforte che avessi conosciuto, e non ci trovavo niente da ridere. Anzi, era magica. Le sorelle erano le marionettiste in uno spettacolo con quattro protagonisti: la mia mano sinistra, la destra, il pianoforte, io.
Quando lasciammo Parigi, in gran fretta, avevo sette anni. Problemi finanziari non avevano lasciato ai miei genitori altra scelta se non abbandonare il Paese e cercare fortuna altrove. Quasi tutte le nostre suppellettili vennero vendute, ma due mesi prima della partenza il negozio del pianoforte era fallito, aveva abbassato le saracinesche ed era stato messo all’asta. Fu così che lo strumento restò in nostro possesso, una delle poche cose che ci accompagnarono nel trasferimento a Londra, assieme a pentole e stoviglie, tavoli e sedie. Alle nostre spalle Parigi e le due maestre.
Quando finalmente il pianoforte arrivò a Londra aveva un’aria stranita, come un amico in visita da un altro mondo. Fu sistemato in un locale interrato, davanti alla finestra, e lo dipingemmo di bianco, come tutti gli arredi – pochi -che ci avevano seguito da Parigi. Per «cominciare una nuova vita», diceva mia madre.
E davvero ricominciò lì, la mia nuova vita, seduto al pianoforte ora bianco, nell’interrato dove mi rintanavo a suonare, lontano dal resto della famiglia. Lo spettacolo musicale delle marionette, che aveva deliziato le mie lezioni francesi, svanì all’istante e senza le due maestre io cominciai a fare la conoscenza diretta dello strumento che mi stava davanti. Non era più un’opera per quattro attori, ma semplicemente una conversazione a due, il piano ed io, e come in tutte le conversazioni normali, il piano suonava e io rispondevo, cantando.
Uno strumento speciale
A tu per tu con lui
da ragazzino potevo parlare di soldi, di sesso
e di amori immaginari
I nostri dialoghi suonati e cantati riprendevano ogni giorno, per ore e ore, e proseguirono nelle settimane, mesi e anni successivi. Era, quello, l’unico luogo dove potevo aprirmi in completa sincerità, per dar sfogo alle mie paure, piangere in privato, ma senza sentirmi solo. Dove potevo esprimere i miei desideri, quasi come accarezzare una lanterna magica e veder apparire il genio. Dove potevo parlare di soldi, di sesso, di amori immaginari. A tu per tu con il mio pianoforte si è sempre dipanata una conversazione intensa. Col tempo, gli argomenti si sono fatti più complessi e le risposte del pianoforte più articolate, ma voce e piano hanno conservato il loro equilibrio, uno al servizio dell’altra, abbracciati nella melodia.
Restavo accanto alla finestra dell’interrato: se guardavo fuori, in su, vedevo le gambe e i piedi della gente che camminava lungo il marciapiede. Gli altri erano là, fuori, il pianoforte ed io ero eravamo nel nostro mondo. Quella sensazione di calore che ti pervade quando riesci, dal nulla, a costruirti il tuo mondo, non la abbandoni più una volta che l’hai sperimentata. Non è un’emozione normale, io la chiamo super emozione, capace di trasformarti in eroe o mostro, in una fragile foglia tremante o un dio raggiante seduzione. Non avrei mai rinunciato al mio pianoforte, sapevo che questi scambi musicali avrebbero salvato la mia vita.
Il pianoforte ha qualcosa di straordinariamente versatile, una qualità ineguagliata da altri strumenti. Quando premi un tasto, ne emerge una nota perfetta. Premi con più forza, o delicatamente, con un tocco breve o tenuto, e la nota sarà sempre precisa e intonata. È lo strumento per tutti, dal pub londinese ai jazz club fumosi, fino alle filarmoniche più prestigiose. Attorno al pianoforte si costruiscono universi o si raccolgono gli affetti famigliari, ma non ce n’è uno che assomigli a un altro, per voce o personalità.
Il mio vecchio pianoforte è ancora a casa, a Wetherby Place. La vernice bianca si è scheggiata, ha messo a nudo il vecchio marrone. È ancora lì, stesso posto, accanto alla finestra, in attesa del prossimo incontro. Con lui ho scritto più della metà delle mie canzoni, eppure le sue possibilità sono illimitate, come infiniti sono gli argomenti. So che può sembrare assurdo, ma sento che era destino incontrarci a Parigi, e poi che io fossi lì, con lui, accanto alla finestra di Londra, lo sguardo rivolto al mondo fuori, con la gente che va su e giù.
Ci sono dialoghi che lasciano la stanza e finiscono negli airpods e nei telefoni di quelle stesse persone che passano davanti alla mia finestra, mentre altre conversazioni restano strettamente private. Canzoni e parole, belle, struggenti, che rimarranno per sempre racchiuse tra quelle mura e non saranno mai ascoltate da nessuno. Ecco il segreto che alimenta le nostre conversazioni quando sono a tu per tu con il mio pianoforte: ci sono cose che resteranno custodite nel mistero.