Corriere della Sera, 17 maggio 2023
Cinquant’anni fa, la strage alla Questura di Milano e il busto in memoria del commissario Calabresi
Gabriella aveva 23 anni e un sacco di sogni, era appena diventata responsabile degli acquisti per la succursale di una famosa boutique di via della Spiga, aveva il compito di andare a Londra a scegliere che cosa comprare e che cosa mettere in vetrina. Non aveva mai preso un aereo per volare fuori dall’Italia, mancavano solo undici giorni alla partenza e finalmente il passaporto era pronto. Giuseppe era un carabiniere in congedo, stava per compiere 64 anni e aveva scelto di non tornare in Calabria da pensionato, ma di restare a vivere a Milano.
Dava una mano a un piccolo imprenditore che, proprio quella mattina, gli aveva chiesto il favore di passare in Questura per ritirare il passaporto di suo figlio.
Felicia aveva sessant’anni, dopo una vita durissima in Sicilia aveva finalmente raggiunto i suoi figli al Nord e quella mattina aveva accompagnato, malvolentieri, sua figlia alla cerimonia di inaugurazione del busto in memoria del commissario Calabresi, ucciso esattamente un anno prima.
Federico, giovane guardia di Pubblica sicurezza, aveva compiuto trent’anni da sei giorni ed era stato messo nel picchetto d’onore alla sinistra del portone dalla Questura.
Le loro quattro vite si incontrarono per un attimo sul marciapiede di via Fatebenefratelli, a Milano, alle 11 del mattino di giovedì 17 maggio 1973. Non si conoscevano ma si incrociarono nell’istante esatto in cui un uomo dalla porta del bar di fronte lanciò una bomba a mano, che sorvolò la strada per cadere in mezzo a loro. I loro quattro nomi, cinquant’anni dopo, sono legati indissolubilmente uno all’altro.
Mia madre, la vedova del commissario Luigi Calabresi, non voleva andare a scoprire quel busto che non amava. Aveva paura. Viveva nell’ansia che le potesse accadere qualcosa mentre era fuori casa senza i suoi tre bambini. Alcuni mesi prima le avevano chiesto una foto per i lavori preparatori della scultura, aveva consegnato quella di un uomo sorridente nel giorno del matrimonio. Poi a ottobre del 1972, quando il suo pancione era già alla fine del settimo mese, la caricarono su un’auto della Polizia per portarla a Santa Margherita Ligure nello studio dello scultore: «Viaggiavamo a 190 all’ora, pregavo che rallentassero ma non mi ascoltavano. In poco più di un’ora mi trovai di fronte all’artista, mi avevano detto che mi dovevo fidare, era bravo e famoso, aveva ritratto nel bronzo il presidente americano Richard Nixon, le stelle di Hollywood e i reali di Olanda e Spagna. Si chiamava Gualberto Rocchi e aveva preparato due bozzetti, quello della foto che avevo scelto io e un altro in cui mio marito aveva la faccia seria, stanca e tesa. Io dissi soltanto che volevo il primo, che l’altro non era lui». Il 17 maggio del 1973, con una cerimonia nel cortile della Questura a cui partecipò il ministro dell’Interno Mariano Rumor, avvenne lo scoprimento della statua: «Avevano scelto il busto che io avevo scartato, il volto fermo e severo. Ero delusa ma rimasi in silenzio. Non ascoltavo i discorsi, avevo il terrore di un attentato. Guardavo in giro e pensavo: “Dove potrebbero mettere una bomba?”».
La paura di un attentato
Anche Felicia Bartolozzi aveva paura: la sera prima a casa aveva cominciato a dire che era pericoloso e aveva cercato di convincere la figlia Angela a lasciar perdere. Ma Angela ci teneva troppo: suo marito Franco, che era stato amico personale del commissario, era via per lavoro e a lei sembrava giusto che qualcuno della famiglia testimoniasse affetto e vicinanza in quel primo anniversario dell’omicidio. Quando, alla fine della cerimonia, uscirono dal portone della Questura e svoltarono a sinistra Angela strinse il braccio della madre e le disse sorridendo: «Hai visto che non è successo niente?».
In quel momento un uomo lanciava la granata esattamente sulle loro teste.
Poco prima a mia madre venne chiesto di andare in Prefettura per essere ricevuta dal ministro dell’Interno. Ad accompagnarla quella mattina c’era suo padre Mario e sua sorella Graziella, che aveva appena 18 anni. «Sono uscita in mezzo alla bolgia, si faceva fatica a camminare, c’era una macchina che mi aspettava, mi spiegarono però che potevamo salire soltanto in due. Mia sorella mi disse di non preoccuparmi, che sarebbe andata a prendere il tram in Piazza Cavour. La lasciai sul portone e ci allontanammo. Non appena girammo l’angolo si sentì un boato. Non riuscivo a respirare, arrivavano voci concitate dalla radio della polizia, l’autista disse che avevano tirato una bomba. Volevo scendere, volevo tornare indietro per cercare Graziella, invece l’auto cominciò ad accelerare».
L’attentatore, che si chiama Gianfranco Bertoli e ha quarant’anni, viene immediatamente arrestato. Sostiene di aver agito da solo e di essere un «anarchico individualista». La verità, che emergerà solo nel tempo, è che la strage è stata progettata dal gruppo neofascista Ordine Nuovo, responsabile di una scia di sangue che va da Piazza Fontana a Milano a Piazza della Loggia a Brescia. L’intento era di punire Mariano Rumor, «colpevole» di non aver dichiarato nel dicembre del ’69 – proprio dopo la bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana – lo stato d’emergenza che avrebbe aperto la strada all’auspicata svolta autoritaria.
Nella prima immagine dopo l’esplosione si vede una ragazza rannicchiata a terra, sembra che dorma, ha i pantaloni a zampa d’elefante, i mocassini e un golf inglese con i rombi. Morirà pochi istanti dopo. Si chiama Gabriella Bortolon e quello doveva essere un giorno felice per lei: l’emissione del passaporto per il viaggio a Londra era la dimostrazione che ce l’aveva fatta dopo anni durissimi. Era rimasta orfana del padre, scomparso in un incidente stradale, quando aveva sette anni. La madre, che si chiamava Maria Eleonora Pellizzari e faceva la sarta, si era risposata ma aveva perso anche il nuovo marito, stroncato da un infarto. Così Gabriella non se l’era sentita di lasciarla sola ed era rimasta a vivere con lei a Quarto Cagnino, il vecchio borgo di cascine tra il nuovo ospedale San Carlo e il neonato Parco di Trenno.
Quando i giornalisti arriveranno a suonare alla porta di casa troveranno una donna ignara che, in attesa della figlia, ha già apparecchiato la tavola per il pranzo.
Sepolta come una sposa
Nella bara venne vestita con un abito da sposa con fiori rosa ricamati sul petto, quello che, pochi giorni prima, aveva consigliato a una cliente, a cui aveva confidato: «Al mio matrimonio voglio anche io questo vestito». La sarta però aveva sbagliato le misure, era risultato troppo stretto per la cliente, e così l’abito era rimasto invenduto. Pensarono che fosse giusto che accompagnasse Gabriella nel suo ultimo viaggio.
Milano è sconvolta, ai funerali di Gabriella ci sono 200 mila persone. Il feretro parte da San Fedele, la Chiesa di Alessandro Manzoni, passa per Piazza della Scala e dovrebbe arrivare in Duomo. Uliano Lucas, il più importante dei fotoreporter di quella stagione, ricorda quel giorno alla perfezione: «Una cosa incredibile, c’era un’enorme massa di gente che occupava ogni spazio dal Castello al Duomo. Una folla compatta che piangeva, ma in un silenzio totale. Le foto che ho scattato sono il simbolo di quel tempo: la città intera si identificava in una persona che rappresentava tutti i cittadini comuni stritolati dalla violenza e dalle trame».
Giuseppe Panzino, il maresciallo dei carabinieri in congedo che doveva ritirare anche lui un passaporto, sarebbe sopravvissuto alle ferite per otto giorni. Era l’unico della famiglia ad abitare al Nord, gli altri quattro fratelli erano rimasti a Marcellinara, in provincia di Catanzaro. Lui se ne era andato dal paese subito dopo la fine della guerra, aveva tenuto per tutta la vita il pizzetto che si era fatto crescere da soldato, non si era sposato e non aveva figli. I fratelli appena appresero la notizia della bomba salirono su un treno che, in una giornata di viaggio, li portò a Milano. Passarono tre giorni seduti, a turno, accanto al suo letto. Al quarto giorno, Giuseppe, che riusciva a parlare e, nonostante le ferite, sembrava migliorare, disse ai fratelli di stare tranquilli, di non preoccuparsi e di tornare in Calabria. Lo ricorda il nipote Francesco, che mi risponde al telefono da Marcellinara e ha appena riaperto la scatola con le foto e i ritagli di giornale: «Raccomandò a mio padre Elio, che aveva una trattoria, di tornare a casa e riaprirla e poi promise: “Quest’estate vengo io a trovarvi in paese”». Appena rientrati ricevettero la notizia di un improvviso peggioramento e, due giorni dopo, della morte. Al paese Giuseppe Panzino tornò soltanto per essere sepolto.
Federico Masarin era entrato in Polizia a soli vent’anni, veniva da Ponte di Piave, un paesino a venti chilometri dalla Laguna di Venezia, e dopo aver prestato servizio a Napoli e Padova era stato destinato alla Questura di Milano. Il suo corpo, pieno di schegge metalliche, resistette dieci giorni. Federico sarà la terza vittima.
L’ultima a morire
Felicia Bartolozzi fu l’ultima a morire, il 28 maggio, nel giorno in cui Gabriella sarebbe dovuta partire per Londra. Era nata nel 1912 a Vizzini, nel cuore della Sicilia, ed era rimasta vedova a 34 anni, con 4 figli e una misera pensione. «Fu costretta a subaffittare una stanza della nostra casa per poter sopravvivere e – mi racconta il figlio Antonio Saia, che oggi ha 84 anni – fece sacrifici enormi ma riuscì a farci laureare tutti e quattro. Io fui il primo a venire a Milano e, anche se avevo studiato Lettere, cominciai a lavorare come metalmeccanico fino ad aprire una ditta tutta mia. Producevo macchine per la lucidatura dei metalli e arrivò il successo, le vendevo perfino negli Stati Uniti alla Harley Davidson. Erano finiti gli anni della fatica e degli stenti e chiesi a mia madre di raggiungermi. Fu un periodo finalmente sereno, oserei dire felice». Fino a quella mattina in cui Felicia si fece convincere ad accompagnare sua figlia Angela alla commemorazione. Arrivarono in ospedale completamente ricoperte di schegge e Angela subì subito un’amputazione, ma sopravvisse. Per tutta la vita, è scomparsa tre anni fa, non si è mai data pace per la morte della madre, sentendosi in colpa per averla trascinata in Questura. In quella bolgia infernale in cui si era trasformato il marciapiede di via Fatebenefratelli, Felicia è la donna vestita di scuro.
La bomba neofascista non fece solo quattro morti, ma anche 52 feriti.
Matteo Ventimiglia era un maggiore dei carabinieri in servizio alla commemorazione, abitava nella caserma di via Lamarmora con la moglie e i quattro figli. Paola, la più piccola, allora aveva sei anni ed era rimasta a casa da scuola: «Ho davanti agli occhi l’immagine di mia madre che risponde al telefono e si accascia. Non c’erano i cellulari e le notizie erano scarse e terribili. Nelle foto si vede mio padre, ferito e sotto choc, che si è rialzato e cerca affannosamente il cappello, perché un carabiniere non può stare senza il suo cappello. Lo operarono subito, aveva 49 schegge in tutto il corpo ma non riuscirono a togliergliele tutte. Sono state espulse nel corso degli anni. Al mare diceva: “Mi è uscita una scheggia” e la metteva in un barattolo in cui le conservava tutte. È andato avanti così fino a 88 anni».
Mia madre arrivò in Prefettura ed era fuori di sé, l’angoscia per le sorti di sua sorella Graziella mista alla rabbia per una cerimonia che aveva avuto un prezzo terribile, cancellarono in lei ogni diplomazia e rispetto delle forme, così si rivolse a Mariano Rumor senza mezzi termini: «Basta con queste parate, basta venire a Milano a fare i becchini, i nostri morti ce li seppelliamo da soli». Il ministro dell’Interno rimase in silenzio, finché un funzionario non entrò e disse: «Abbiamo rintracciato sua sorella, è viva e sta bene». Graziella, quando non la fecero salire in macchina, si accorse di aver dimenticato l’ombrello nel cortile della Questura. Era appena rientrata nel portone quando ci fu l’esplosione.
A cento metri dalla casa in cui viveva con la mamma, oggi c’è un piccolo parco intitolato a Gabriella Bortolon, con l’area giochi per i bambini e un campo da basket. Una lapide con foto la ricorda, ha sempre uno di quei golf inglesi a rombi che amava molto, il caschetto biondo e un grande sorriso. Avrà per sempre quell’energia piena di speranze e quella bellezza dei suoi 23 anni.