La Stampa, 16 maggio 2023
Una giornata con i giudici ragazzini a Vibo Valentia
Si chiamano Alessio, Claudia, Tommaso, Marco, Irene, Vittorio. Vengono da Torino, Roma, Mestre, Modena, Brescia, Pontedera. A guardarli con uno spritz in mano in una capricciosa serata di primavera sembrano universitari fuorisede. Invece sono le giovani spalle su cui poggia la giustizia italiana nella frontiera estrema e negletta della Calabria. La regione con i più alti tassi di criminalità mafiosa e la più bassa età media dei magistrati. Quelli di prima nomina, spediti da una sorta di «nonnismo giudiziario» nella trincea dei maxiprocessi di ‘ndrangheta senza aver mai scritto una sentenza o interrogato un imputato.
Quando negli Anni ’80 celebrò il maxiprocesso di Palermo istruito da Falcone e Borsellino, il presidente della Corte, Alfonso Giordano, aveva alle spalle 34 anni di esperienza. Le tre giudici che a Vibo Valentia stanno celebrando Rinascita-Scott, il più importante processo di mafia degli ultimi trent’anni con 350 imputati di cui 130 arrestati e una ventina di istanze difensive da vagliare ogni giorno, vantano tutte insieme non più di 6 anni di esperienza. I giudici anziani, o semplicemente maturi, se ne stanno alla larga dalla Calabria. I bandi del Csm per i trasferimenti volontari finiscono regolarmente deserti, anche se incentivati con bonus da 1.600 euro al mese.
In questo cono d’ombra, Vibo Valentia conta almeno venti cosche su 120 mila abitanti. Tassi di interdittive antimafia doppio rispetto alle grandi città meridionali. Record italiano per crimini violenti, con sequestri di armamenti a ritmo settimanale. Uffici giudiziari sepolti di fascicoli, con punte di 1500 per ogni pm (la riforma Cartabia ne prevede massimo 200). Richieste di arresti ferme da tre o quattro anni. E inesorabile prescrizione di processi come quello per l’alluvione del 2006, che fece quattro morti.
Alle tre del pomeriggio, in una stanzetta del palazzo di giustizia ormai abitato solo dalle addette alle pulizie, due trentenni addentano un panino. «Scusate, cercavo l’ufficio dei giudici». «Siamo noi. Vuole un caffè dalla macchinetta?». Uno spuntino prima della camera di consiglio, per la meglio disgraziata gioventù giudiziaria. Catapultata su processi con nomi da serie tv (Romanzo criminale, Olimpo, Decollo, Dedalo, Imponimento, Costa Pulita, Maestrale, Petrolmafia) e centinaia di imputati, tra cui i presunti capi dei clan locali.
Staranno qui tre anni, come gli altri giudici ragazzini, poi potranno chiedere di tornare al Nord. «A fare una vita normale – come dice una giovane giudice di Reggio Calabria – perché non ne vogliamo una da eroi». Com’è la vita anormale lo spiega Camillo Falvo, procuratore di Vibo. «Non andare a pranzo fuori dall’ufficio, non frequentare feste, verificare il casellario giudiziale di chi ci affitta la casa, o del proprietario della pizzeria dove andiamo la sera, peraltro solo in compagnia solo di colleghi. Siamo qui, in un posto di frontiera. Capisco che nessuno voglia venire, come i medici al pronto soccorso».
Ilario Nasso ha 36 anni e del tribunale di Vibo è il decano, «perché qui basta poco per diventare anziano». Lui non è venuto. È tornato. Nato a Taurianova, «la città delle teste mozzate» nella piana di Gioia Tauro, ha superato il concorso dopo un master a Bologna. Trentesimo in graduatoria su 350, poteva scegliere di andare in ovunque. Ma sognava di fare il giudice del lavoro e l’unico posto disponibile era a Vibo, vacante da due anni. «Quando sono arrivato in ufficio, nel 2017, ho trovato una situazione disperante», racconta. Quasi duemila processi non trattati, tra cui alcuni con richieste di risarcimento calcolati in lire. Un flusso di 1300 fascicoli nuovi ogni anno.
Nel 2022 Nasso ha scritto 832 sentenze. Uno Stakanov. Ma qualcuno non ha gradito il suo rigore nel valutare certe «prassi lucrative sulle prestazioni previdenziali e assistenziali», che qui sono una forma di welfare paramafioso. Basta un medico compiacente, o almeno non troppo calvinista sulle istanze di invalidità, e il gioco è fatto.
Nasso è invece considerato insopportabilmente calvinista, perché oppone argomenti a certe insistenti lamentazioni. «Ma come signor giudice, non la facciamo un’altra perizia?», si sente dire a fronte di due certificazioni negative di disabilità.
Una mattina il cancelliere trova sulla porta degli uffici di Nasso e dell’altra giudice del lavoro Tiziana Di Mauro uno strano volantino dattiloscritto e ciclostilato. «La gente non ce le fa più, è indignata e sta scoppiando. L’unico modo è usare le maniere forti. Ormai c’è solo il fuoco, da un momento all’altro la mamma di Nasso può morire così come la Di Mauro può scivolare lungo i binari per un capogiro». La firma è di una fantomatica Unione per la Legalità.
«Quando l’ho letto mi sono sentito male – sospira Nasso – sono calabrese ma non avrei mai pensato a qualcosa del genere». Lui e Di Mauro sono finiti sotto tutela di polizia, primi giudici del lavoro nella storia della magistratura italiana. Alcuni mesi dopo, un sindacato ha organizzato una manifestazione sotto il palazzo di giustizia. Non di solidarietà, ma contro di loro.
Nei tribunali calabresi è subito sera, anche in primavera. La giovane giudice accende una sigaretta. «Giornate intere in ufficio, weekend a scrivere sentenze. Il lavoro è duro, frustrante. Non abbiamo una vita. Ma è quello che sognavo di fare, non mi lamento. Non sento nemmeno la fatica. Tranne quando alzo lo sguardo dal fascicolo, mi guardo intorno e penso: ne varrà la pena?». —