la Repubblica, 16 maggio 2023
Cosa resta di Marchionne
Che cosa resta di Sergio Marchionne a quasi cinque anni dalla sua morte, il 25 luglio del 2018 in una clinica di Zurigo? Molto tra le persone che lo hanno conosciuto e nel gruppo che ha contribuito a far crescere. Pochissimo nel Paese dove questo italiano atipico e insofferente del carattere nazionale ha percorso la parte più importante della sua carriera di manager. È questa la risposta della nuova edizione aggiornata di Sergio Marchionne, la biografia che il giornalista di Bloomberg Tommaso Ebhardt aveva pubblicato per la prima volta nel 2019 e che riappare adesso con un’integrazione iniziale di una cinquantina di pagine in cui l’autore utilizza la distanza del tempo per riflettere sulla figura dell’uomo che per 14 anni ha guidato il gruppo Fiat e per interpellare alcuni dei protagonisti di quel periodo.«Stellantis non sarebbe stata possibile senza Sergio», ricorda così John Elkann, che assieme a lui ha portato la Fiat all’acquisto di una Chrysler pressoché fallita per poi creare, dopo la morte del manager, il nuovo gruppo Stellantis, di cui oggi Elkann è grande azionista e presidente, assieme ai francesi di Peugeot. «Ha realizzato una rivoluzione che solo un vero outsider come Sergio poteva portare avanti», spiega ancora il presidente di Stellantis, che ha la stessa carica anche in Gedi, il gruppo che editala Repubblica.Certo, l’underdog Marchionne – per usare un’espressione che l’uomo sentiva propria ben prima che entrasse nel dibattito politico – ha avuto la caratteristica di polarizzare le opinioni come pochi altri. Manager dalle intuizioni geniali, “disruptor” e contestatore dell’ordine costituito per vocazione, beniamino dei mercati finanziari ai quali non ha offerto solo una storia di crescita, ma una crescita reale delle attività industriali che gli erano state affidate, è stato fortemente contestato dai sindacati e da parte della politica, a destra come a sinistra, per il suo carattere poco incline alle mediazioni e soprattutto per un disegno che ha portato quello che era il gruppo Fiat ad allargarsi – e a diluirsi, è l’accusa più comune – sempre più fuori dai confini italiani.Non una casualità, ma un piano strategico adattato e rivisto con velocità sconosciuta agli orologi e ai calendari italici anche a seconda delle opportunità (e dei pericoli) che arrivavano da un mondo sempre più globale. E proprio in questo saper muovere le pedine di un gruppo italiano ed europeo su uno scenario mondiale, Elkann vede non solo la capacità manageriale di Marchionne, ma anche una sua spinta ideale: «Sergio era un patriota nel senso più alto della parola. Le nostre battaglie sono sempre state battaglie per l’Italia, mai battaglie contro l’Italia». E alle critiche sul fatto che il nuovo gruppo sull’asse Torino-Parigi-Detroit starebbe spostando il suo baricentro versola Francia, la replica è puntuale: «Senza Stellantis, la mole di investimenti italiani, da Torino alla gigafactory di Termoli non sarebbero possibili».Tutto questo nasce anche dalla personalità di un uomo che, come racconta bene Ebhardt, costruisce il suo mito agendo per sottrazione: non solo i maglioncini comprati in saldo online al posto dei doppiopetti d’ordinanza finanziaria e i sacchetti della spesa da cui spuntano i caricatori dei tanti telefonini invece della classica 24 ore, ma in modo assai più sostanziale: andando quanto può alla radice dei problemi, anche se si tratta dei bagni dello stabilimento di Pomigliano d’Arco da mettere a posto, perché è da lì che bisogna partire per trasformare uno dei più disastrati impianti del gruppo. E applicando ciò che predica: «Ho tolleranza zero per le stronzate». Intese come aspetti cerimoniali, ma anche come sovrastruttureideologiche applicate a un business che ha regole inderogabili.L’eredità di Marchionne resta anche tra i suoi “kids”, i giovani manager che amava prendere dal basso della gerarchia aziendale per portarli in alto e metterli alla prova. Molti non ce l’hanno fatta; altri, come Luca de Meo, oggi alla guida di Renault, e Antonio Baravalle che è amministratore delegato di Lavazza, ricordano le sue tenerezze e le sue durezze, ma soprattutto l’imprinting di un metodo di lavoro che hanno portato con sé anche quando le loro strade si sono divise. Un’eredità preziosa e comune, ma che non ha attecchito fuori dai confini aziendali, visto che il ricordo pubblico di Marchionne appare già sbiadito. L’uomo che ha cambiato la Fiat andando spesso contro la cultura nazionale non è riuscito – e forse non sarebbe potuto andare in altro modo – a cambiare un Paese sempre più spaventato dalla modernità.