la Repubblica, 16 maggio 2023
Interivsta a Torrey Peters
Il triangolo no, non l’aveva considerato. Ma quando Reese, una trans newyorchese, scopre che la sua compagna trans Amy vuole tornare a essere Ames, cioè di nuovo un uomo, e in tale veste mette incinta una donna di nome Katrina, i tre dopo un iniziale sconcerto valutano l’ipotesi di tirare su un figlio, amarsi e costituire una famiglia tutti insieme. Comincia così Detransition, baby, romanzo d’esordio di Torrey Peters, transgender, newyorchese (d’adozione) e dunque passata per alcune delle esperienze che racconta. Ora pubblicato in Italia da Mondadori, il suo libro è diventato un caso letterario negli Usa e in Inghilterra, vincendo il premio Pen/Hemingway 2021 per la migliore opera prima, venendo selezionato tra i finalisti del prestigioso National Book Award e scatenando polemiche per la selezione per il Women’s Prize for Fiction: alcune scrittrici hanno protestato sostenendo che Peters è un uomo e non poteva essere candidato a un riconoscimento riservato alle donne.
Scritto con una prosa cruda, spiritosa e travolgente, il suo inconsueto triangolo amoroso ha i tratti della commedia, ma affronta temi di drammatica attualità, aprendo nuove frontiere nel dibattito sui diritti Lgbtq. Oltre ad allargare il vocabolario di chi conosce poco questo mondo, con termini come “tucking” (le varie maniere per nascondere pene e testicoli fra le natiche).
Quanto c’è di lei nei tre protagonisti, Peters?
«C’è parecchio, ma distribuito in diverse fasi della mia vita. Per un certo periodo mi sono sentita Reese, per un altro Amy/Ames, i due trans della vicenda. Non immaginavo di potermi rispecchiare anche in Katrina, ma adesso che sono più matura mi rendo conto che c’è una parte di me pure in questa donna».
All’inizio del romanzo la trans Reese dice che gli uomini sposati sono per lei una preda facile perché “non sanno stare da soli”. È un’affermazione ispirata dalla celebre battuta di Oscar Wilde, “se avete paura della solitudine, non sposatevi”?
«Mi sarebbe piaciuto scrivere io una battuta così bella. Wilde parlava per esperienza personale della solitudine che si può provare all’interno della vita matrimoniale: e oggi questo è un dato di fatto ben noto anche alle famiglie tradizionali».
A parte la solitudine del matrimonio, c’è un altro messaggio che voleva trasmettere con il suo libro?
«Più che un messaggio, volevo trasmettere una domanda. Il libro si apre con tre persone che si chiedono se possono formare una famiglia piuttosto inconsueta e, senza fare spoiler, finisce con la medesima domanda. La risposta non esiste, nel senso che non ce n’è soltanto una: l’importante è chiedersi quali sono i nostri desideri, senza romanticizzare né la famiglia classica, né la famiglia queer».
La scrittrice italiana Michela Murgia ha dichiarato recentemente che la sua comunità queer è la sua famiglia e ha preso una casa con dieci stanze per ospitarla tutta. È un atteggiamento che condivide?
«Molti queer vivono in comunità, anzi in vere e proprie comuni, e possono essere situazioni incredibilmente felici. Io non ci riuscirei, non perché contraria per principio ma perché non è il modo in cui intendo il mio essere queer».
Scusi se la domanda è troppo personale, ma cosa significa per lei essere queer?
«È una parola che contiene molte definizioni.
Per me significa vivere al di fuori di normeprestabilite. Uno cresce ricevendo delle ideologie rigide su cosa sia l’amore e cosa la sessualità: essere queer per me vuol dire aprirsi a nuove possibilità. Essere trans è un modo di essere queer, ma non l’unico.
Insomma, essere queer significa decolonizzare la mente dalle idee fisse su genere e sesso delle persone».
Chi sono i suoi autori preferiti?
«Vado per fasi, in cui un autore mi ossessiona e voglio leggere soltanto quello. Mi è successo con Elena Ferrante: mi ha conquistato la ferocia con cui scrive, la libertà che dà ai suoi personaggi. Ora mi sono messa a leggere Thomas Mann e adesso è lui la mia ossessione, daI Buddenbrook aLa montagna incantata».
Ha letto “Orlando” di Virginia Woolf?
«Sì, una ventina d’anni fa e adesso mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione a una nuovaedizione del libro in America. Ho rifiutato.
Penso che me l’abbiano chiesto solo perché sono una transgender. Ma il libro non parla dei trans. Meglio che l’introduzione la scriva un esperto di Virginia Woolf».
I diritti Lgbtq hanno fatto abbastanza progressi negli ultimi dieci anni?
«Almeno negli Usa sì, ma bisogna distinguere. In America i diritti dei gay sono ormai accettati dalla maggioranza dei conservatori. I diritti dei trans sono invece sotto attacco, come dimostrano le iniziative del governatore repubblicano della Florida Ron De Santis.
L’atteggiamento della gente, tuttavia, si è evoluto. Sei anni fa se parlavo di trans a una conferenza il pubblico diceva “interessante”, ma era come se parlassi della vita dei leopardi.
Adesso ascolta, parlo di cose che possono riguardare anche loro».
Come ha reagito alle proteste di alcune scrittrici per l’inclusione del suo libro in un premio per la letteratura femminile?
«All’inizio ci sono rimasta male. Ma mi ha confortato che la giuria non ha cambiato idea.
Ancora di più mi hanno fatto piacere le lettere a mio sostegno di tante brave scrittrici.
Comunque la polemica ha contribuito a fare diventare il mio libro un best-seller nel Regno Unito».
E cosa dice di J.K. Rowling, secondo cui si è donna soltanto se si nasce con l’organo genitale femminile?
«Donna è una categoria su cui non tutti al mondo hanno le stesse opinioni. È donna chi può avere figli, dicono alcuni. E allora se una donna è sterile, non è donna? Mi identifico come transgender e uso le toilette femminili dal 2007, non provo più insicurezza al riguardo: la mia posizione è che bisognerebbe ignorare queste polemiche e continuare a fare ciò che ci rende felici».
Cosa le piace della città in cui vive?
«New York è una città di nicchie e tribù: il problema è che è troppo cara: negli anni Ottanta gli artisti vivevano tutti insieme all’East Village, ora sono sparpagliati qua e là. Non credo al genio che produce capolavori isolato su una montagna: ci vuole una comunità per produrre idee, anche in campo artistico».