la Repubblica, 16 maggio 2023
La partita turca
Salvo sorprese o incidenti di percorso, Recep Tayyip Erdogan sarà rieletto fra due settimane alla presidenza della Repubblica Turca. Risultato non scontato, anzi. Fino a pochi giorni prima del voto di domenica la maggior parte dei sondaggi dava il suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, in vantaggio anche netto.
L’imprevedibilità dell’elettorato si è confermata superiore alle capacità di previsione della scienza politica. Con quattro punti e mezzo di vantaggio e grazie alla probabile convergenza a suo favore di una notevole parte dei voti raccolti da Sinan Ogan, candidato della destra ipernazionalista e lupo grigio di provata fede – seppure in rottura con il suo ex capo, Devlet Bahceli – Erdogan sembra in grado di spuntare l’ennesimo mandato. Venti anni da guida della nazione turca non sono evidentemente abbastanza per la maggioranza degli elettori.
Perché questa continuità al potere? Perché la grave crisi economica, con la lira turca ai minimi e l’inflazione al galoppo, non ha inciso seriamente sul voto? E perché nemmeno la più che discutibile performance del governo nel dopo-sisma dello scorso febbraio ha terremotato l’orientamento degli elettori nelle zone più colpite, come sarebbe parso logico? Possiamo provare a spiegarlo enunciando i punti di debolezza dello sfidante più che quelli di forza del presidente.
Il settantaquattrenne Kilicdaroglu è sempre stato una personalità piuttosto pallida. Candidato in mancanza di meglio, una volta messo fuori gioco da una magistratura non proprio apolitica l’unico uomo che avrebbe forse battuto Erdogan, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu. Il quale, a differenza di Kilicdaroglu – visto mentre calpestava con le scarpe il tappeto di preghiera durante il Ramadan – ha forti credenziali religiose, tanto da recitare brani del Corano durante i comizi. Inoltre, la coalizione che sostiene lo sfidante è molto eterogenea. Più un raggruppamento anti-Erdogan che pro-Kilicdaroglu.
Infine, quest’ultimo è parso a molti turchi il candidato degli americani e degli europei occidentali. L’appoggio esplicito di Biden e l’incontro con l’ambasciatore degli Stati Uniti ad Ankara si sono rivelati un boomerang, visto che nove turchi su dieci coltivano un’opinione negativa dell’America.
Quanto a Erdogan, appare ancora a una buona metà della popolazione come autorevole garante del carattere nazionale e delle sue fondamenta religiose. Insieme, delle ambizioni neoimperiali di un Paese che ha ricominciato a pensarsi grande potenza. Tanto da giocare contemporaneamente su tutti i tavoli nelle maggiori crisi internazionali, a cominciare dalla guerra in Ucraina, dove fa da sponda diplomatico-energetica a Putin – ovvero profitta delle sue difficoltà – mentre arma con i suoi droni la resistenza ucraina.
Certo, chiunque vinca avrà contro la quasi metà del Paese. La geografia elettorale conferma la presa di Erdogan e del suo partito islamista nell’Anatolia profonda, così come ricalca il profilo dell’opposizione filo-occidentale lungo le coste e in area curda. Le istanze di modernizzazione e liberalizzazione diffuse ne lla Turchia aperta al mondo e meno identitaria devono però ancora trovare una guida che le rappresenti con successo e le porti a rovesciare la tendenza autoritaria e islamista dell’ultimo ventennio.
Kilicdaroglu tenterà di mobilitare il suo elettorato in queste due settimane di campagna. Il voto a lui favorevole non solo a Istanbul ma anche ad Ankara sarà la base per il tentativo di sorpasso, così come l’intesa con il partito curdo. Ma l’eterogeneità della coalizione e il suo modesto carisma personale, oltre alla tendenza pro-Erdogan di quasi tutti i media tradizionali, rendono l’operazione abbastanza improbabile. A meno che, ancora una volta, le urne non smentiscano i sondaggi. E sempre che Erdogan accetti l’eventuale sconfitta.