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 2023  maggio 16 Martedì calendario

Biografia di


La biatleta: da bimba palleggiavo a calcio inseguendo record

D orothea Wierer, la definiscono la Calamity Jane italiana. Ma lei conosce la vera Calamity Jane?
«So che è stata la prima donna-pistolero nel selvaggio West. Però conosco poco di lei: dovrò documentarmi».
Calamity amava, oltre che sparare, il gioco d’azzardo e bere whisky.
«Allora non fa per me. Comunque il Far West è affascinante. Amo scoprire mondi particolari, noi nel biathlon siamo in una bolla e rischiamo che tutto si esaurisca nella nostra realtà».
Cavalese, una bellissima villa fresca di ristrutturazione, interpretata in chiave moderna e con oggetti di design. Dorothea Wierer, la biatleta che assieme ad altri colleghi e colleghe ha sdoganato in Italia una disciplina ben più popolare altrove, ci racconta il suo essere sportiva, moglie e personaggio sempre più noto, anche perché quegli occhi chiari sottolineano una bellezza che non sfugge. Il marito Stefano Corradini, finanziere come lei, passa, saluta e le lascia campo libero. Dorothea lo accompagna con lo sguardo: «Un uomo così non lo trovo mai più».
Cominciamo allora dal consorte: è geloso?
«Per niente. Certo, quando giro incontro tipi belli e simpatici e ricevere complimenti è gradevole. Ma tra me e Stefano la fiducia è reciproca ed è decisiva. Lui, poi, ha un gran carattere».
È vero che ha dato in beneficienza l’abito delle nozze?
«L’ho proposto su Facebook e i soldi ricavati li ho girati in Germania a un’associazione che fa azioni sociali in Nepal».
Perché quando si parla di biathlon tanti lo associano alla fase di tiro e non allo sci di fondo, che è la base di tutto?
«Perché il mio sport non è ancora ben riconoscibile: c’è chi lo confonde con il triathlon...».
Avrebbe fatto solo la tiratrice, ad esempio come Niccolò Campriani e la sua ex compagna Petra Zublasing?
«No. Noi uniamo due discipline e il fascino è proprio quello. Il biathlon poi è dinamico, il tiro è statico. Campriani è venuto a vederci: il suo e il nostro paiono mondi simili, ma sono diversi».
È vero che sparano meglio le donne degli uomini?
«Negli ultimi anni, almeno da noi, erano forse superiori le donne; ma oggi c’è equilibrio».
Sparare non è poco femminile?
«E perché? Conta solo la concentrazione, che non dipende dall’essere maschio o femmina».
Dorothea, nome dalle radici tedesche.
«In realtà sarebbe norvegese. E ha pure un’origine greca: vuol dire “dono di Dio”».
Il cuore, però, è italiano. È vero che si è opposta all’idea austriaca del doppio passaporto per i sudtirolesi?
«Sì, ma sono cose del passato. Certe questioni mi stanno sull’anima: sono altoatesina, con un accento marcato, e pensano che non mi reputi italiana. Questo mi fa male».
Che cosa ha della mentalità teutonica?
«La precisione e la puntualità. Non sono una “ciaciarona” e mi piace fare ciò che dico. Del temperamento italiano ho invece l’allegria e il gusto per la moda».
Dove si colloca tra le nostre sportive?
«Non saprei e non ci penso, pur avvertendo di aver ottenuto più risultati di quanto immaginassi. Ho un ruolo? Penso di sì, ma non sbavo affinché mi venga riconosciuto».
La bellezza dà vantaggi?
«Può aiutare al cospetto degli sponsor. Però serve anche un carattere aperto: se sei bella ma non apri bocca...».
È vero che ha rifiutato di posare nuda per «Playboy»?
«Ormai è una storia vecchia, forse di dieci anni fa. Era una richiesta partita dalla Russia: lì il biathlon è popolare».
Ma lei ha detto no.
«Non mi sento così sicura di me. Peraltro oggi le ragazze che finiscono su quella rivista non sono più del tutto nude. Io avrei dovuto esserlo, quindi ho rifiutato. Seriosa? Non dico questo, ma amo difendere la privacy. Però se una si sente a suo agio nel mostrarsi nuda, faccia pure».
Come la Vonn nello sci, anche lei ha cominciato a usare il «make up» prima di andare in gara. Però Lindsey era stata criticata.
«È assurdo. Ormai la scelta di truccarsi è diffusa tra le atlete. Però non puoi mettere su chili di “make up”: i ritocchi sono leggeri».
Ha confessato che ci sono stati quattro momenti nella sua vita.
«A 15 anni ero spensierata e non credevo di diventare campionessa. A 20 ero un po’ pazza: uno spirito libero, mi piaceva ballare fino al mattino. A 25 stavo diventando professionista e ho capito di dovermi impegnare. A 30, nello sport, ho raggiunto il top. Oggi vivo la fase della donna sposata. Porta con sé la parte più bella: quello che ho fatto, ho fatto, tutto ciò che arriverà sarà in più, senza rimpianti per traguardi falliti».
Manca solo l’oro olimpico.
«Sì, ma non è semplice vincerlo. E ci vuole fortuna».
Può provarci nel 2026 con Milano-Cortina.
«Mi piacerebbe esserci, ma vorrei avere una famiglia che cresce, una vita tranquilla, non fare sempre le valigie. Però quando vedo che ancora vinco, mi dico: sfrutta il momento. In me convivono due anime: tre anni non sono tanti, deciderò dopo ogni stagione».
Viaggia di qua e di là, ma tra Alto Adige, dove è nata, e Trentino, dove vive, c’è la sua terra.
«Sono i luoghi del cuore, nei quali riflettere e a volte “scappare” da un mondo folle e cattivo».
Mamma Irmgard ha avuto un ruolo centrale.
«Non sono mai stata “mammona”, ero una bambina autonoma. Però penso che si è dedicata a cinque figli e che non è stato facile. Mio padre Alfred è sempre stato al lavoro, è grazie a lei che siamo svegli e sportivi. Insomma, mi ha fatto uno “stage” per quando sarò io madre».
Il matrimonio e lo sport
Mio marito geloso? Per niente. Certo, quando giro per gare incontro tipi belli e simpatici e ricevere i complimenti è gradevole. Ma tra noi la fiducia è decisiva
È stato più duro studiare o fare biathlon?
«Studiare. A scuola dovevo stare ferma e mi annoiavo: volevo uscire, ero iperattiva».
Le rivalità nello sport servono?
«Dipende da come le gestisci. Ho sperimentato che la cosa più importante è stare attenti alla mamma, al fidanzato o al marito di una compagna di squadra: se sono invidiosi, è la fine».
È montato il dualismo Dorothea Wierer-Lisa Vittozzi.
«Non è stato un bel periodo per me. Ma non potevo farci nulla se io vincevo e lei no. Abbiamo stipulato una tregua? Sì, non ha senso pensare a certe cose. Però ci sono rimasta male».
Che cosa non le piace delle ragazze di oggi?
«Sono estreme, vogliono apparire e i social network lo permettono. Anch’io devo usarli, ma serve misura. Poi però ti imbatti negli haters: la cattiveria è la cosa peggiore. Come ci convivo? Staccando la spina: ignoro chi cerca di farti sembrare cattivo».
Le danno la possibilità di tornare ai 20 anni: accetta?
«Sì: è l’età in cui mi sono sfogata. Magari cambierei qualcosa, senza stravolgimenti».
Dorothea con i tacchi a spillo.
«Li uso non appena posso, mi va di farmi bella e di sentirmi donna».
È vero che le piacerebbe essere più alta?
«Vero, tuttavia non ne faccio una malattia. Vorrei anche essere meno muscolosa: ognuno di noi non si piace in qualcosa».
Lo sa che ha un aplomb da manager?
«Amo organizzare e ho già in mente progetti che però non anticipo. Dico solo che lo sport sarà presente».
Parliamo del cioccolato?
«Ahia, a quello è difficile resistere. Ma dopo un allenamento duro una tavoletta me la mangio: è un doping naturale che fa sentire felici».
A proposito di doping: come va nel biathlon?
«L’illecito c’è stato, soprattutto nei Paesi dell’Est. Oggi vedo una disciplina controllata e pulita, anche perché conta molto il tiro e se su questo fronte sei scarso, sei scarso».
Dorothea Wierer è spendacciona?
«Ho la carta di credito memorizzata nel cellulare e non va bene: pago e non ci penso. E io punto alle cose belle...».
Parla al suo fucile?
«No».
Dopo un errore le scappa una parolaccia?
«Raramente: non ho tempo per imprecare».
Il biathlon è una maratona psicologica?
«Sì. Se parti e hai mal di gambe, o sbagli al primo poligono, sai che è dura salire sul podio. Ma non devi mollare: è una lezione per la vita».
Da bambina le piaceva il calcio.
«Mi vestivo da calciatrice e giocavo da sola: palleggiavo cercando di migliorare il record».
Mare o monti per le vacanze?
«Mare. Cerco il caldo e di norma preferisco stare in Italia. La montagna non mi intriga e un po’ mi spaventa: temo le valanghe».
Le piacerebbe sfondare nello spettacolo?
«Da un lato sì, ma avrei timore di fare figuracce e di essere massacrata per l’accento. Poi è un mondo particolare, nel quale il “trash” è di moda. Ecco, a me non va: amo la normalità».
La chiamano a Sanremo: ci va?
«No!! Sono stonatissima».
Intendevamo come co-presentatrice.
«Dovrei fare dei corsi per imparare: ognuno è fatto per qualcosa, io sono fatta per il biathlon».
Si è mai immaginata in un reality show?
«Non vedo nulla che mi attrae, a parte forse Pechino Express perché è particolare e movimentato».
Si definisce impaziente e fastidiosamente precisa: doti o difetti?
«Entrambe le cose. A volte non dormo pensando a quello che devo fare: sono abituata al “tutto subito” e a farlo bene. Ma pretendo di essere ricambiata, sennò mi arrabbio».
Se il marito non riga dritto rischia la schioppettata?
(risata). «No, Stefano è bravo, sveglio, autonomo e super-disponibile: quando sono via fa tutto lui, la gestione della casa è nelle sue mani».