Corriere della Sera, 15 maggio 2023
Biografia di Federica Pellegrini
Estratto da Oro pubblicato da Nave di Teseo
Adorata, qualche volta odiata, temuta (dalle avversarie): Federica Pellegrini, la Divina, è stata la duecentista più forte della storia del nuoto e uno dei più importanti atleti italiani. Due medaglie olimpiche, 19 mondiali, 37 europee, 130 titoli italiani, undici record del mondo, cinque Olimpiadi con altrettante finali nei 200 stile libero (unica nel nuoto femminile mondiale). Si è ritirata nel 2021, dopo i Giochi di Tokyo, a 33 anni, si è sposata con Matteo Giunta (che è stato il suo ultimo allenatore), ed è protagonista di programmi tv di successo. Oggi è membro della commissione atleti del Cio. Questo è un estratto di «Oro», l’autobiografia in uscita domani (per La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi).
Ogni anno a dicembre abbiamo alcune gare societarie, un campionato italiano a squadre. Chi vince porta punteggio alla sua squadra e alla fine si fa una classifica di società. Sono gare tranquille, non c’è bisogno di tirare alla morte. Sono la più forte, non devo fare la prestazione della vita.
Mi preparo per i 400. Al take your marks salgo sul blocco di partenza, i muscoli si contraggono pronti allo scatto, mi tuffo e dopo 50 metri smetto di respirare. La gola mi si stringe come se qualcuno stesse cercando di strangolarmi. Soffoco. Mi parte la testa. Mi fermo, esco, prendo la mia roba e scappo via piangendo. Ritirandomi dalla gara faccio perdere la mia squadra. Chiedo scusa in lacrime a tutti, mi dispiace ragazzi ma c’è qualcosa che non va. In Alberto si insinua il sospetto che la faccenda sia più seria del previsto, che per risolverla serva qualcosa in più che ignorarla e continuare a nuotare. Ma durante gli allenamenti va tutto liscio.
Arrivano gli Assoluti, la prima settimana di marzo a Riccione. I campionati assoluti di primavera sono la gara italiana più importante, quella che ti qualifica alle gare dell’estate, e cioè le Olimpiadi, gli Europei o i Mondiali. Agli Assoluti si compone la squadra che partirà. È un test cruciale e tutti si presentano in tiro, preparati. La mattina ho la batteria dei 400, per rientrare tra le prime otto in Italia. In quel periodo, in forma com’ero, doveva essere una passeggiata di salute. E invece monto su quel cazzo di blocco e smetto di respirare. Mi paralizzo, guardo la corsia, mi dico non ce la faccio. Di nuovo prendo la mia roba e vado via.
Quella è stata la prima volta in cui Alberto mi è venuto incontro. Mi è venuto a prendere in camera di chiamata mentre io respiravo in affanno, nel panico. In quel momento si è reso conto che c’era un problema da risolvere, e che quel problema era serio. Mi ha detto adesso calmati che dopodomani hai la tua gara. Non ci pensare più. Calmati, fai scioglimento e fatti fare un bel massaggio. Finiamo questa settimana di gare e da lunedì ci pensiamo.
Due giorni dopo la mia crisi di panico nella batteria dei 400, l’8 marzo, scendo in vasca per la finale dei 200. Vinco e faccio il record del mondo. Un record del mondo davanti alla mia famiglia durante una gara italiana, incredibile. Tornando da Riccione verso casa accendo la radio e sento Platinette che commenta la gara dicendo: ma che cos’ha che non va questa ragazza? Un giorno scappa dal blocco di partenza e due giorni dopo fa il record del mondo.
A fine luglio c’erano i Mondiali, a Roma. Avevamo quattro mesi di tempo per cercare di costruire il mio 400 stile libero. In casa non potevo perdere.
Il vero problema era che non avevo nessun problema. Almeno a livello organico. La prima volta, a Genova, era stata la mancanza di respiro a provocare il panico. Avevo l’asma e non lo sapevo. Benissimo: adesso mi curavo l’asma, quindi non c’era niente di reale a bloccarmi il respiro. Si era semplicemente innescato un meccanismo perverso nella mia testa: non una causa reale, ma la paura che mi venisse una crisi mi faceva venire la crisi. I pensieri arrivavano come una tempesta, non ce la faccio, non ce la faccio, non respiro, non respiro – mentre respiravo benissimo —, e a quel punto mi si stringeva la gola e non respiravo più. E non riuscire a respirare fa una paura terribile, è proprio come se la morte ti bussasse sulle spalle.
La prima volta a Genova avevo l’asma e non lo sapevo, poi si è innescato un meccani-smo perverso nella testa
Ho fatto una fatica tremenda. È stato doloroso. La prima volta a Genova la crisi è durata tanto, minuti in cui pensavo non sarei sopravvissuta. Non solo perché era una sensazione inedita, ma perché due eventi si erano susseguiti. Prima avevo avuto un attacco d’asma, poi si era aggiunta una crisi di panico. Le volte successive, quando l’asma ormai la tenevo a bada con il Broncovaleas, la mancanza di respiro era solo una questione psicologica ma era altrettanto dolorosa.
Ho intensificato le sedute con lo psicologo e intanto Alberto mi faceva provare i 400 più volte durante la settimana, magari a fine allenamento. Era una specie di teatro, ci comportavamo come se si trattasse di una gara. La sua idea era che se io mi fossi sentita come mi sentivo durante le gare avrei avuto la crisi anche lì in allenamento. E infatti la crisi arrivava senza neanche bisogno di sentir montare la fatica. Iniziavo a ripetermi non ce la faccio, a 25 metri mi fermavo, a 50 mi fermavo. Uscivo dalla vasca, mi calmavo, ripartivo e provavo ad andare avanti. Nella mia testa ero convinta che arrivata ai primi 50 metri sarei morta. Che non sarei più riuscita a respirare. E questo ovviamente mi scatenava il terrore. Lo psicologo da una parte e Alberto dall’altra lavoravano per convincermi che niente di quello che sentivo era reale e che non sarebbe successo niente. Ma sembrava che le loro parole non avessero effetto su di me. Fin quando una notte non ho fatto un sogno.
Ho sognato che ero sul blocco di partenza per i 400 stile libero in non so quale circostanza. So solo che dovevo fare questi 400, tra l’altro in vasca corta, quella in cui mi era partita la crisi. Tre fischi per avvicinarsi al blocco, due fischi per salire.
Al take your marks mi rendo conto di avere ancora l’accappatoio addosso. L’accappatoio della mia squadra, blu con le strisce gialle. Non sapevo cosa fare. L’arbitro stava per dare la partenza e io non potevo scendere e toglierlo. Così, quando ho sentito fischiare mi sono tuffata. Con l’accappatoio. E ho iniziato a nuotare pensando soltanto che non potevo mollare, dovevo arrivare in fondo. L’accappatoio, impregnato d’acqua, era pesantissimo, facevo una fatica mostruosa ma non mollavo, nuotavo, respiravo. Dai, Fede, pian piano la finiamo, mi dicevo. E avevo la sensazione che, bracciata dopo bracciata, qualcosa stesse accadendo. Nuotavo e sentivo che ero abbastanza forte per farcela, che nonostante tutto sarei arrivata in fondo, ci sarei riuscita. E infatti, stremata, a un certo punto ho toccato il bordo: ce l’avevo fatta.
Quando mi sono svegliata avevo male dappertutto, ma avevo fatto i 400 metri nuotando con l’accappatoio. Era come se avessi tirato fuori le mie paure e ne avessi impregnato la spugna. Non erano più dentro di me, oscure, misteriose. Le avevo sputate, le avevo materializzate. E adesso che stavano lì, intrise nell’accappatoio, potevo finalmente sfilarmele di dosso. In quel momento ho pensato: ce la posso fare. E così è stato. Il lavoro con Alberto e con lo psicologo, che apparentemente non dava alcun risultato, si era sedimentato dentro di me e alla fine era venuto fuori tutto insieme attraverso quel sogno.
Da allora in poi a volte, prima di partire per quei 400, chiedevo a una mia amica, Roberta Ioppi, che nuotava le batterie prima di me, di aspettarmi. Sapevo che se lei era lì a sorvegliarmi potevo farcela. Non è un caso che Roberta ora sia diventata una psicologa. Ho imparato a convivere con quella paura, a tenerla a bada. Ma come per una ferita, la cicatrice non se n’è mai andata. Era lì, a ricordarmi quello che poteva succedere.
Non ho più affrontato i 400 in modo spavaldo come prima della crisi, partendo velocissima, facendo i primi 200 metri in testa e provando poi a resistere. Ho cominciato a partire quasi piano e a tornare molto più forte. Ho cercato un equilibrio, evitando di fare uno sforzo estremo per non risvegliare la crisi. Arrivavo più tranquilla ai 200 metri, viravo e lì iniziava la mia gara, i miei 200. Nella mia testa li affrontavo come se fossero due 200 e non un 400. Alla fine li ho abbandonati. Gli ultimi 400 che ho fatto a livello internazionale sono stati agli Europei di Berlino nel 2014, dopodiché ho deciso di concentrarmi sui 200. La mia gara era quella, è sempre stata quella.