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 2023  maggio 15 Lunedì calendario

Biografia di Nole Djokovic

«Sono solo come il lupo che a 10 anni mi spaventò». Le bombe su Belgrado, i vaccini, il Kosovo, l’Ucraina: Nole Djokovic si racconta. «Con Federer e Nadal impossibile essere amici».
Novak Djokovic, ma lei quante lingue parla?
«Inglese, francese, italiano, spagnolo. Da ragazzo anche tedesco, ma è un po’ che non lo pratico».
E in campo in quale lingua pensa?
«In serbo. In campo mi arrabbio in serbo, gioisco in serbo, mi vergogno in serbo. Anche se con lo staff, quando non voglio farmi capire dagli altri, parlo in italiano. Del resto sono quasi tutti italiani: Edoardo ed Elena i manager, Claudio il fisioterapista, Marco il preparatore atletico…».
Mi risulta che lei se la cavi anche con il portoghese, il cinese, l’arabo.
«Qualche frase. È una questione di rispetto per il Paese. Quando vedono che ti sforzi, apprezzano. Più lingue sai, più valore hai. Non dico come uomo; intendo il valore delle relazioni, la ricchezza dell’amicizia».
Qual è il suo primo ricordo?
«La montagna. Kopaonik, nel Sud della Serbia. Mio padre mi portava con sé a sciare, avvolto in una sciarpa, quando avevo sette mesi: questo ovviamente me l’ha detto lui, non sarebbe un ricordo ma un trauma…Un giorno ero solo nella foresta, avrò avuto dieci anni, e ho incontrato un lupo».
Un lupo?
«Un lupo. Provai una paura profonda. Mi avevano detto che in questi casi bisogna indietreggiare lentamente, senza perderlo di vista. Ci siamo guardati per dieci secondi, i più lunghi della mia vita; poi lui ha piegato a sinistra e se n’è andato. Provai una sensazione fortissima che non mi ha mai abbandonato: una connessione d’anima, di spirito. Non ho mai creduto alle coincidenze, e pure quel lupo non lo era. Era previsto. È stato un incontro breve, ma molto importante».
Perché?
«Perché il lupo simboleggia il mio carattere. Sono molto legato alla mia famiglia, e cerco di essere disponibile con tutti; ma a volte devo stare da solo. Spesso nella vita mi sono ritrovato solo. Solo con la mia missione, con i miei obiettivi da raggiungere. Sono rimasto connesso con quel lupo. Anche perché il lupo per noi serbi è sacro. È il nostro animale totemico. È il simbolo di una tradizione nazionale, di una fede ancestrale che precede il cristianesimo. Una religione prima della religione».
Suo padre è nato in Kosovo, lei è stato in visita a Mitrovica.
«E ora in Kosovo voglio tornare, con mia moglie Jelena, per battezzare là i nostri figli, Stefan di otto anni e Tara di cinque. So che l’argomento è molto sensibile. Che il conflitto c’è ancora, non con le armi in questo momento, ma la tensione si sente. Io non voglio fare politica, ma per ogni serbo il Kosovo è il cuore, è il centro della nostra cultura, della nostra identità, della nostra tradizione, della nostra religione».
Com’è stata la sua infanzia?
«Libertà totale. Senza telefoni: quando calava il sole era il segnale che dovevo tornare a casa. La foresta, la natura sono state fondamentali per la mia formazione, vorrei che pure i miei figli stessero il più possibile all’aria aperta. A quattro anni mi regalarono la prima racchetta; ma nessuno di noi aveva mai giocato a tennis, nessuno sapeva cosa fosse. Eravamo una famiglia di sciatori, il nostro idolo era Tomba la bomba».
Poi sulla montagna arrivò Jelena Gencic, l’ex tennista che la scoprì.
«I miei gestivano una pizzeria, si chiamava Red Bull. Proprio di fronte costruirono i campi da tennis. Avevo sei anni. Non so se era scritto nel destino che dovessi diventare un campione, le ho detto che non credo alle coincidenze, nulla avviene per caso e tutto ha una ragione; ma credo alla fortuna. E fu una fortuna che arrivasse Jelena. Non c’era posto per me nel corso, e io da dietro il reticolato guardavo gli altri bambini giocare. Poi accesi la tv alla ricerca di una partita di tennis, e c’era la finale di Wimbledon: Sampras batté Courier. Il mattino dopo Jelena si avvicinò e mi chiese: buongiorno piccolo ragazzo, sai cos’è il tennis? Io risposi: sì, ieri ho visto la finale di Wimbledon! E lei: vuoi provare?».
Provò.
«E Jelena vide qualcosa dentro di me. Da lei ho imparato tutto. Se sono così perfezionista, è perché lei lo era. Aveva scoperto Monica Seles, e mi faceva una testa così: vuoi una coca-cola? Monica Seles non beve coca-cola. Vuoi un hamburger? Monica Seles non mangia al fast-food… Mi ha fatto crescere anche come uomo, mi ha preparato alla vita. Il mio approccio olistico (Djokovic dice proprio approccio olistico, in italiano), l’attenzione a quel che mangio, a come dormo, a come recupero, a come accolgo i pensieri, l’ho trovato in lei. Mi portava a casa sua e mi faceva ascoltare la musica classica…».
Quale?
«Mozart, Bach, Vivaldi. Mi leggeva le poesie di Pushkin. E mi faceva vedere i video dei campioni: il rovescio di Agassi, il servizio di Sampras, la volée di Rafter e di Edberg, il dritto e i salti di Becker, quei salti che non ho mai imparato a fare».
Chi era il suo preferito?
«Guga Kuerten, il brasiliano. Il più carismatico, il più amato. Così, quando nel 2016 finalmente ho vinto il Roland Garros, gli ho chiesto il permesso di celebrare alla sua maniera: disegnare sulla terra battuta di Parigi un gigantesco cuore».
Lei ha conosciuto anche Emir Kusturica, il regista.
«Sì, ed è un’altra persona da cui ho imparato molto. Posso non essere d’accordo su alcune cose, ma è un uomo autentico, onesto. Uno che ha il coraggio delle proprie idee, e le difende dalle pressioni dei media. Ne so qualcosa anch’io, con le pressioni che ho dovuto sopportare in questi ultimi tre anni…».
Si riferisce al vaccino?
«Ho subìto tutto sulla mia pelle. Molte persone hanno apprezzato che io sia rimasto coerente. Il 95 per cento di quello che è stato scritto e detto in tv di me negli ultimi tre anni è totalmente falso».
La chiamavano Novax Djokocovid.
«Io non sono no vax e non ho mai detto in vita mia di esserlo. Non sono neppure pro vax. Sono pro choice: difendo la libertà di scelta. È un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere che cose inoculare nel proprio corpo e cosa no. L’ho spiegato una volta alla Bbc, al ritorno dall’Australia, ma hanno eliminato molte frasi, quelle che non facevano comodo. Così non ho mai più parlato di questa storia».
Com’era il posto in cui l’hanno trattenuta in Australia?
«Un carcere. Non potevo aprire la finestra. Io sono rimasto meno di una settimana, ma ho trovato ragazzi, profughi di guerra, che erano lì da moltissimo tempo. Il mio caso è servito a gettare luce su di loro, quasi tutti sono stati liberati, e questo mi consola. Un giovane siriano era lì da nove anni».
Nove anni?
«Ora è in America, quando tornerò quest’estate lo voglio ritrovare e invitare a vedermi agli Us Open; anche con lui mi sento connesso. Il giudice australiano ha accolto il mio ricorso; ma il ministro dell’Immigrazione, che ha il potere di deportare chi vuole senza ragioni, mi ha espulso. Io però non ho violato le regole. Sono entrato in Australia con i documenti necessari e corretti, come ha riconosciuto il magistrato del primo processo».
Ma non era vaccinato.
«Avevo avuto il Covid ed ero guarito. Ho rispettato tutte le norme e non ho messo in pericolo nessuno. Eppure una volta là sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo. Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio, che fosse opposto al mainstream; e lo sono diventato. Mi hanno messo l’etichetta di no vax, una cosa del tutto falsa, che ancora adesso mi fa venire il mal di stomaco. Poi si è scoperto che la situazione della pandemia era molto diversa da come veniva presentata. Ora l’Organizzazione mondiale della sanità ha scritto che il virus non è più così grave, che fa parte di tutti i virus che abbiamo…».
Ma questo è dovuto proprio al fatto che non c’è stata libertà di scelta e tutti o quasi si sono vaccinati, non crede?
«Però si è divisa la società. E io sono stato messo in mezzo, additato come persona non grata. Mi sono ritrovato solo; ma quella volta mi sono sentito la pecora, circondata da venti lupi. E un uomo solo contro i grandi media non ha chance. Io dimentico in fretta, sono concentrato sulle cose positive. Ho avuto il Covid una seconda volta. Ho sempre accettato le regole, non potevo andare in America e non sono andato, ho rinunciato a due Us Open per restare coerente con me stesso. Non ho parlato, perché ho visto che quel che dicevo veniva distorto. Sono tornato in Australia e ho vinto. Però sono rimasto deluso. Dai media e da molti colleghi».
Quali?
«Nomi non ne faccio. Ma quando mezza società è contro di te, allora vedi la vera faccia delle persone. E molte persone hanno girato la testa dall’altra parte. Molti giocatori e qualche organizzatore».
Torniamo agli allenamenti con Jelena. La notte del 24 marzo 1999 lei era a Belgrado.
«Non accadde la prima sera, ma la seconda o la terza. Mi svegliò l’esplosione, il fragore dei vetri rotti. Mia madre cadde, picchiò la testa contro il termosifone, svenne. Mio padre urlò: Nole, i tuoi fratelli! Io non avevo ancora dodici anni ma ero il più grande. Presi Marko e Djordje e uscimmo in strada, non c’era un rifugio nel nostro condominio, così scappammo verso il palazzo di mia zia, erano le tre del mattino, per strada c’era il fumo delle bombe. Caddi, mi graffiai le mani e le ginocchia, alzai lo sguardo e i miei non c’erano più, sentii un rombo venire verso di me, guardai il cielo e vidi passare due F-117. Spararono due razzi contro l’ospedale militare, che esplose a cinquecento metri da noi, la terra tremò, tremava tutto… Fu un trauma, ancora adesso ho paura dei rumori forti e improvvisi, anche solo l’allarme antiincendio mi fa sobbalzare».
È vero che continuò a giocare a tennis nei 78 giorni del bombardamento di Belgrado?
«È vero. Le scuole erano chiuse. Contro le bombe cosa puoi fare? Non molto, oltre a continuare la tua vita. Ci alzavamo all’alba, non bombardavano mai all’alba. Andavamo nelle zone dove non erano previste incursioni, oppure in quelle dove le incursioni c’erano appena state. Per me era come un gioco, ma per i miei genitori fu uno stress terribile: la paura, la coda per il pane, l’ora di elettricità al giorno in cui mia madre doveva cucinare il più possibile… Quella guerra fu una motivazione ulteriore. Mezzo mondo era contro di noi, il nostro Paese non aveva certo una buona immagine; e io volevo dimostrare al mondo che esistevano anche serbi buoni».
Cosa pensa della guerra in Ucraina?
«L’unica cosa che posso dire, da bambino di guerra, è questa: in guerra nessuno vince. La guerra è la cosa più brutta della vita, la peggiore invenzione dell’uomo, la peggiore idea della storia. Ho visto due guerre, quella civile in Jugoslavia e i bombardamenti Nato su Belgrado, ho visto la sofferenza della mia famiglia, la povertà del mio Paese. La guerra è una cosa molto più grande di noi, puoi solo pregare Dio che la faccia finire domani. Purtroppo la guerra in Ucraina è lenta, e ogni giorno si fa più devastante. Ci sono le città distrutte, le vite stroncate, ma ci sono anche danni che non si vedono, che dureranno nel tempo. Ho letto un articolo sugli effetti dei traumi bellici: influiscono sulla salute, in particolare sulla digestione. Io ho avuto problemi con il microbioma, la mia carriera è decollata solo quando ho scoperto l’intolleranza al glutine e ai latticini, e questo può essere legato alla guerra. Ma la cosa peggiore ovviamente è perdere una persona cara; e la guerra apre un vuoto in ogni famiglia. Per questo non posso sostenere nessuna guerra contro nessun Paese».
È vero che per consentirle di giocare a tennis suo padre si indebitò?
«Con la guerra avevamo perso tutto, anche la pizzeria. Mi fece vedere un biglietto da dieci marchi e disse: questo è tutto quanto ci resta. La retta della scuola che aveva aperto in Baviera Niki Pilic, l’ex campione cui ero stato segnalato da Jelena, ne costava cinquemila al mese. Mio padre lo fece per farmi capire che avevo una responsabilità. Andò dagli strozzini. Criminali. La Serbia al tempo dell’embargo era un posto pericoloso. Gli chiesero un interesse del 12,5 per cento. Poi aggiunsero: hai fretta? Sì? Allora facciamo il 15. Anche mia mamma ha lavorato tanto, ha sofferto tanto».
Lei sta da tutta la vita con la stessa donna, e anche lei si chiama Jelena. Come l’ha conosciuta?
«In un circolo di tennis di Belgrado. Io avevo 16 anni, lei 17, e stava con un altro tennista. Lui vinse un torneo, sollevò la maglietta e sulla canottiera aveva scritto: Jelena, ti amo. Lo prendemmo in giro, ma dentro di me pensai: chi sarà questa Jelena? Non gliel’ho portata via, si erano già lasciati. Lei è andata a studiare in Italia, alla Bocconi, io mi allenavo con Riccardo Piatti a Montecarlo, siamo rimasti a lungo lontani. Ogni tanto mi veniva a trovare in treno, andavo in macchina a prenderla a Ventimiglia, quanto tempo passato in quella stazione… Se poi avesse cominciato a lavorare ci saremmo perduti, con la vita che faccio; rinunciare era l’unico modo per stare insieme. Lavorò tre, quattro mesi; poi scelse me. Le sono molto grato per questo».
È vero che lei ha smesso di imitare i colleghi dopo che gliel’ha chiesto Federer?
«Federer non me l’ha chiesto e io non ho smesso con le imitazioni, quest’anno al Montecarlo Players Show ho fatto Andy Murray, Medvedev e il rapper Snoop Dogg. Non ho mai imitato qualcuno per offenderlo ma per divertirmi; tipo “Scherzi a parte”. E poi me lo chiedevano, come Lea Pericoli a Roma nel 2009 davanti a Nadal: feci l’imitazione di Rafa perché aveva vinto lui; se avessi vinto io non l’avrei mai fatta, avrei pensato: se lo imito dopo che l’ho battuto, Rafa mi ammazza…” (Djokovic ride).
Com’è stato davvero il suo rapporto con Federer?
«Non siamo mai stati amici, tra rivali non è possibile; ma non siamo mai stati nemici. Ho sempre avuto rispetto per Federer, è stato uno dei più grandi di tutti i tempi. Ha avuto un impatto straordinario, ma non sono mai stato vicino a lui».
È vero che all’inizio eravate amici con Nadal, ed è finita quando lei ha cominciato a batterlo?
«No. Nadal ha solo un anno più di me, siamo tutti e due dei Gemelli, all’inizio siamo anche andati a cena insieme, due volte. Ma anche con lui l’amicizia è impossibile. L’ho sempre stimato e ammirato moltissimo. Grazie a lui e a Federer sono cresciuto e sono diventato quello che sono. Questo ci unirà per sempre; perciò provo gratitudine nei loro confronti. Nadal è una parte della mia vita, negli ultimi quindici anni ho visto più lui della mia mamma…».
E Fiorello?
«Troppo simpatico. Un fenomeno. Altri comici fuori dalla scena sono tristi; lui anche in privato non smette mai di scherzare, di fare show. Quando è caduto dalla moto l’ho cercato, per stargli vicino. Mi piace tutto quello che fa, in radio, in tv, l’edicola Fiore è un’invenzione geniale. Quando il tennis finirà, mi piacerebbe fare anch’io l’attore. A teatro però».
Come mai è milanista?
«Per mio padre. E per Dejan Savicevic, il Genio».
Lei è noto per la sua forza mentale, per il talento di giocare i punti decisivi meglio di quelli normali. Prima ha detto: accogliere i pensieri. Cosa intende?
«I pensieri negativi non vanno respinti, ma accolti e lasciati passare».
In Italia la amano, altrove spesso le tifano contro. Il massimo fu la finale di Wimbledon 2019, dove al quinto set annullò a Federer due match-point sul suo servizio.
«E alla fine ho detto che il pubblico urlava Roger-Roger e dentro di me il grido diventava Novak-Novak. Quella finale è stata una delle due partite della vita».
Qual è stata l’altra?
«La finale del 2012 in Australia con Nadal: una battaglia fisica, durata quasi sei ore. Nella maggioranza dei tornei, quando giocavo contro Federer e contro Nadal, il pubblico era contro di me. Mi dicevo: devi sviluppare la forza dentro la tua testa, se no non vinci mai. Ma non è una cosa facile, trasformare il tifo contrario in energia. Non è che funziona sempre. Come diceva Michael Jordan: ho fallito, ho fallito, ho fallito; e ho vinto».