la Repubblica, 15 maggio 2023
Effetto Zelens’kyj
Due giorni dopo cosa resta della visita di Zelensky a Roma? Resta senza dubbiouna posizione italiana espressa con particolare chiarezza e determinazione sia dal presidente del Consiglio sia dal presidente della Repubblica, ciascuno nel proprio ambito. Parole solenni, una scelta di campo a favore della nazione invasa che non lascia dubbi. Nulla di ciò che è stato detto, nulla dei gesti che hanno accompagnato le parole è apparso casuale. Forse è dipeso dal fatto che negli ultimi tempi il dramma ucraino cominciava a suscitare meno emozioni in un’opinione pubblica stanca e forse persino assuefatta all’orrore di quasi un anno e mezzo di guerra. Occorreva ribadire le ragioni dell’Italia quale nazione leale all’alleanza atlantica e all’Europa intesa non come burocrazia di Bruxelles bensì come comunità di destino.
Del resto non si può dimenticare che in Italia è presente una discreta corrente trasversale filo-russa, o se si preferisce anti-Nato e anti-americana: una corrente certo più forte che in qualsiasi altro Paese euro-occidentale.
Molto attiva in tv, sui social e in diversi circoli politico-sindacali. Se poi si guarda verso Est, solo in Serbia e Ungheria si scorge un’opinione collettiva con maggiore comprensione per le ambizioni di Putin.
Arrivando a Roma, il presidente ucraino conosceva di sicuro la realtà italiana. Sapeva di Salvini e Berlusconi, era al corrente della politica di Conte e dei 5S, delle convinzioni ideologiche dell’estrema sinistra, come pure dei dubbi serpeggianti nel Pd. Ma ovviamente lui era l’ospite, mentre sbrogliare le contraddizioni spettava al governo da cui era partito l’invito. Questo spiega la particolare nettezza di accenti con cui Giorgia Meloni e Sergio Mattarella hanno sottolineato il ruolo dell’Italia nella difesa dell’Ucraina, fino a una pace che dovrà realizzarsi, ovvio, ma con il consenso e alle condizioni di Kiev.
Nel silenzio o nel defilarsi dei politici antipatizzanti verso la causa ucraina, qualcuno ha voluto vedere una prova di unità nazionale intorno al tema cruciale della nostra politica estera. Difficile ammettere che sia così, occorrerà attendere almeno una controprova. Per ora abbiamo visto un Salvini che si è sottratto all’incontro con Zelensky e parla di pace senza mai citare il buon diritto dell’Ucraina a recuperare i propri territori. Toni simili a quelli di Conte quando chiede di non mandare armi a Kiev.
Nessuno dei due è in grado di incidere sugli sviluppi della guerra, entrambi pensano ad altro, come peraltro è loro diritto: a come tenersi stretta la porzione di elettorato che se ne infischia dell’Ucraina, della Nato, di un’Italia che vuole restare nell’Occidente liberale e non essere risucchiata in una deriva asiatica.
Palazzo Chigi e Quirinale hanno perciò compiuto un atto non banale ricevendo Zelensky con quelle modalità e in una situazione sul campo che a breve potrebbe essere determinate per le sorti del conflitto.
È evidente lo sforzo di rivolgersi all’opinione pubblica più indifferente o distratta per ricordarle l’importanza della posta in gioco.
Così come si avverte la preoccupazione di non aprire spazi a posizioni ambigue in politica estera, dal momento che ora si tratta del prestigio internazionale dell’Italia.
Vedremo nei prossimi mesi. Il centrosinistra rimane incerto perché diviso. A destra Salvini si è dissolto sullo sfondo, ma non ha cambiato idea sul rapporto con Mosca: attende che le circostanze gli siano più favorevoli. Non a caso il pulviscolo social adesso punta sulla crisi del rapporto tra Washington e Kiev, di cui qualcuno intravede i primi indizi. Ma è troppo presto per dirlo. L’Italia preferisce guardare alla prospettiva di una vittoria militare ucraina, magari parziale. L’estate dirà chi ha ragione e quali saranno i riflessi in Europa. E in Italia.