la Repubblica, 15 maggio 2023
Intervista a un’attivista che smette di salvare vite perché stufa di vedere morti in mare e dell’odio per le Ong
«Ricordate Josefa, la donna camerunense sopravvissuta ad un naufragio, che salvammo dopo due giorni in mare aggrappata a quel che restava del gommone affondato?
Ecco, solo l’emozione fortissima di quella mano che si muoveva appena nell’acqua, i suoi occhi stravolti sarebbero valsi la pena di questi sette anni e mezzo trascorsi a salvare vite nel Mediterraneo. Ma non ce la faccio più: troppa morte, troppo dolore e troppo odio attorno a noi. Lascio».
Anabel Montes Mier, 36 anni, la pioniera dei volontari a bordo delle navi umanitarie, un volto diventato famoso quando, nel 2017, la sua foto con in braccio un neonato strappato alla morte dall’equipaggio della Open Arms fece il giro del mondo, è scesa la scorsa settimana dalla Geo Barents.
Quella sulla nave di Msf è stata la sua ultima missione.
Anabel, perché questa decisione?
«Una scelta difficilissima, questi sette anni e mezzo mi sono sembrati venti.
Rifarei tutto ma il livello di intensità, di tensione emotiva, la potenza delle esperienze vissute sono diventatiinsopportabili. Tutti gli orrori visti e ascoltati hanno reso fragile anche una persona come me che si è sempre ritenuta forte. Sindrome da stress post-traumatico, la diagnosi che ho ricevuto, io soccorritrice.
Provate a capire come stanno quelle persone dopo anni passati in Libia».
Quante vite ha salvato?
«Migliaia di persone con le loro storie terribili, decine di cadaveri, molti di più di quelli che avrei mai pensato di vedere. Persino la felicità per le vite salvate macchiata dalla consapevolezza che poi a terra in pochi li aiuteranno. Il compito delle Ong è evitare che queste persone muoiano in mare, poi dovrebbero essere gli Stati ad aiutarle. I bambini magari, come i tanti neonati che ho tenuto in braccio, riusciranno a costruirsi un futuro, ma gli anziani?
L’altro giorno a La Spezia con me è sbarcata una donna di più di 60 anni.
Lei che vita avrà? Finirà per strada?».
Il clima attorno alle Ong negli ultimi anni è assai cambiato. Ha inciso anche questo?
«Quanto odio, e non riesco a farmene una ragione. Mi hanno insultato in tutti i modi, augurato il carcere, lo stupro, la morte. Molto di più di quello che è umanamente tollerabile. Come è possibile che chi si prodiga per salvare vite sia ripagato così?»
Anche in occasione del salvataggio di Josefa siete stati vittime di una campagna di odio.
«Ci hanno accusato di aver inscenato quel salvataggio, hanno insinuato che quella foto fosse un montaggio, aggredito quella povera donna con la storia delle unghie laccate. Invece di commuoversi, come faccio ancora io. Ho pianto a dirotto a pensare al terrore di quella donna rimasta sola per due giorni e due notti in mare».
L’esperienza più dura?
«Un soccorso in cui fummo costretti a scegliere. C’erano decine di persone in acqua, io ero su uno dei rhibs.
Ricordo lo sguardo implorante di un ragazzo che tendeva la mano, ma dovemmo prima prendere donne e bambini, e quando tornammo da lui era andato a fondo. Quegli occhi ancora oggi mi perseguitano»
Lei è stata anche accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poi testimone d’accusa al processo contro Matteo Salvini. Ora ha vissuto anche la stagione dei porti lontani alle Ong.
«Quando mi indagarono avevo 30 anni e tanti sogni e non capivo come era possibile che da benefattori ci trasformassero in malviventi. Ero a bordo di Open Arms nei 20 giorni in cui Salvini si rifiutò di farci sbarcare i naufraghi, io sono stata prosciolta, lui è a processo e io ho testimoniato contro di lui. Ho visto tanta manipolazione degli eventi, ora il tentativo di mandarci lontano per chiudere gli unici occhi nel Mediterraneo. Ho visto l’indifferenza omicida di Malta, i guardiacoste libici finanziati dall’Europa spararci addosso, la violenza sulle persone che dicevano di voler salvare. Un bagaglio di esperienze invisibile ma gigantesco. Quello che mi porto dentro lo scriverò, non voglio che nessun nome, nessuna storia vada perduto. Buon vento a tutte le Ong».