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 2023  maggio 15 Lunedì calendario

Piccola inchiesta sulla casa popolari


Si chiama “primo accesso”, ma per Giancarlo Fabrizi e sua madre Sabina significa l’opposto. Vuol dire che martedì 20 giugno, alle 08.00, l’ufficiale giudiziario suonerà alla porta dell’appartamento di Ponte di Nona, estrema periferia di Roma, per notificare lo sfratto. «Gli spiegherò che non possiamo andare da nessuna parte», dice Fabrizi, 69 anni. Vivono lì dal 2015, grazie ai 540 euro di affitto pagati per loro dal fondo casa del Comune. Ma da dicembre, dopo che il proprietario ha deciso di non rinnovare, il municipio ha smesso di versare e sono diventati morosi. Mamma Sabina, 92 anni, prende 940 euro di pensione, Giancarlo 450, la minima: «Chi ce lo fa un contratto così? Non ci dormiamo la notte». La speranza ora è un numero: 287, il loro posto nella graduatoria delle case popolari di Roma. Può sembrare buono, in fila ci sono 14.321 famiglie. Ma è bruttissimo per la lentezza con cui scorre e la prospettiva di finire per strada: quando l’ufficiale suonerà la seconda volta potrebbe essere accompagnatodagli agenti. L’emergenza abitativa dell’Italia si misura in questa differenza: tra il numero crescente di persone che non possono permettersi una casa e la capacità sempre minore dello Stato di garantirgliela. Un’analisi del 2020 di Nomisma e Federcasa stimava un milione e mezzo di famiglie in disagio abitativo “grave” o “acuto”: anziani, mamme sole con figli, disoccupati, disabili, famiglie con un solo reddito, tanti stranieri, soprattutto in affitto ai margini delle città, con il canone che mangia buona parte delle entrate. Quando ci sono. Ma la situazione sta peggiorando, ora che gli aiuti Covid finiscono, gli sfratti sospesi ripartono e il governo Meloni, alla ricerca di risorse per le sue promesse elettorali, ha deciso di non rifinanziare il fondo affitti che sosteneva migliaia di persone in difficoltà. «Molti dovranno decidere se andare in morosità o mangiare», sintetizza il segretario del Sunia Stefano Chiappelli. A fronte di questo bisogno le case popolari sono appena 800 mila, tre quarti di proprietà delle Regioni e il resto dei Comuni: circa il 3% delle abitazioni italiane, uno dei dati più bassi in Europa. E anche qui la tendenza peggiora: sempre di più restano vuote, oltre una su dieci, vista la cronica assenza di risorse per manutenzione e ristrutturazioni. Di quelle che restano, una manciata – il 2% – viene riassegnata ogni anno a nuovi inquilini. Il risultato, stima un addetto ai lavori, è che almeno 400 mila nuclei restano in lista d’attesa, senza contare chi neppure presenta domanda, scoraggiato o invisibile.
L’eccezione italiana
E così il nodo di un’edilizia pubblica lasciata per decenni a se stessa arriva al pettine. All’inizio degli anni ’90 il Paese dei tanti proprietari di casa, forse illudendosi non servisse più, abolì il Gescal, il fondo che finanziava le abitazioni popolari con trattenute in buste paga. Patrimonio e competenze furono trasferiti alle Regioni, le cui Aziende casa avrebbero dovuto sostenersi grazie ai canoni. Un’eccezione rispetto al resto d’Europa, dove si parte valutando i costi di gestione da un lato e stabilendo le tariffe per l’utenza dall’altro, con lo Stato che mette la differenza. Eccezione diventata circolo vizioso: man mano che gli inquilini sono diventati più poveri, il canone medio si è abbassato e le morosità sono salite (oggi al 23%), costringendo gli enti a vendere case per salvare i conti. Ma finendo per esacerbare il problema. «Bisogna realizzare almeno 200 mila unitàper rispondere a una domanda sociale drammaticamente cresciuta», stima Luca Talluri, presidente di Casa Spa Firenze. «E bisogna farlo anche per la tenuta del sistema pubblico, a meno che non si voglia rischiare la privatizzazione nel giro di qualche anno».
Oltre che economico, il fallimento è nel modello: nato non per occuparsi di persone, bensì per gestire un’infrastruttura – muri – e ancora di competenza di quel ministero.
«Era pensato per un’Italia che c’è più, che doveva mettere un tetto sulla testa delle famiglie operaie che arrivavano in città», spiega Raffaella Saporito, che insegna Public management alla Sda Bocconi. Molte abitazioni restano all’inquilino a vita e magari vengono “ereditate” dai figli: il risultato è che in tante case popolari vivono persone selezionate trent’anni fa, che non rappresentano la fascia più estrema di disagio. Spesso utenti soli abitano in appartamenti grandi, pensati per famiglie, così che i pochi spazi sono sottoutilizzati. «Dovremmo scordarci l’idea che sia sufficiente allocare metri quadri a una famiglia sulla base di una graduatoria rigida in cui entrano la giovane donna con minori, una persona con disagio psichico, un disabile, una famiglia immigrata – spiega Saporito –. A bisogni diversi e mobili rispondiamo con lo stesso immobile».
La manina del Pnrr
«Fin quando ci consegnano lechiavi non si può sapere…». Non è scaramanzia quella di Anna, 70 anni, e Rosa, una ventina meno. Semmai la prudenza di chi ne ha viste tante, con «la paura che possa sempre arrivare uno sgombero». Dopo vent’anni di occupazione, all’ex deposito dell’aeronautica al Porto Fluviale, luogo simbolo dei movimenti per il diritto all’abitare di Roma, le circa 60 famiglie di 15 nazionalità che ci abitano dovrebbero vedere la casa che si sono costruite diventare casa popolare, assegnata loro formalmente dopo la ristrutturazione dell’immobile. La data è il 2026, quella dei progetti del Pnrr: Porto Fluviale infatti è stato inserito tra i Pinqua, i “Progetti innovativi per la qualità dell’abitare” a cui il Piano ha destinato 2,8 miliardi. In Campidoglio la destra ha fatto le barricate per la decisione di derogare alla norma che nega a chi occupa il diritto alla residenza. Ma qui gli abitanti sono tutti nelle graduatorie delle case popolari. E rivendicano di avere fatto, dal basso, quella che molti dicono essere la soluzione per un Paese sommerso di cemento: il recupero di aree dismesse. Negli anni il piano terra è diventato una piazza, per un quartiere snaturato dalla movida. La ristrutturazione conserverà quegli spazi: laboratorio di oreficeria, ciclofficina, sala da tè, cinema.
All’edilizia pubblica in asfissia, il Pnrr offre un po’ d’ossigeno. Nel capitolo Pinqua sono entrati 159 progetti, tra cui otto “pilota”, dalla riqualificazione delle baraccopoli sorte a Messina dopo il terremoto a quella di un’area a Sudovest di Milano. Ma oltre ai primi ritardi nei bandi, segnalati dalla Corte dei Conti, alla fine le unità abitative, nuove o ristrutturate, saranno appena 16.500, di cui solo 11.143 di vera e propria edilizia pubblica. «Non è un problema di soldi – dice Saporito della Bocconi – abbiamo 200 miliardi e ne abbiamo dati 3 alla casa, dedicandone di più agli stadi. Senza contare tutti i bonus edilizi. Un’occasione mancata per assenza di visione, perché le politiche abitative sono senza mamma e papà».
La legge della casa
È nelle grandi città che i fronti dell’emergenza casa stanno esplodendo: i più poveri, che rischiano di non avere un tetto, gli studenti in tenda, la classe media che non riesce più a comprare. Non a caso a marzo undici assessori alla Casa di altrettante amministrazioni di centrosinistra hanno siglato un manifesto per il rilancio delle politiche abitative. Sia a Milano che a Roma le giunte stanno approvando piani che prevedono l’incremento degli alloggi pubblici. «Stiamo facendo la nostra parte per affrontare in maniera sistematica l’emergenza», dice Tobia Zevi, assessore di Roma Capitale. «Ma il governo deve fare la sua, sostenendo con maggiori risorse i Comuni e rifinanziando il fondo per l’affitto».
Per ora l’esecutivo Meloni ha parlato poco di casa. L’unico punto su cui la premier è intervenuta, un cavallo di battaglia, sono le occupazioni, a cui ha assicurato «giorni contati». In Parlamento ci sono due disegni di legge che inaspriscono le pene per chi occupa immobili e facilitano sgomberi e sfratti. Quanto al diritto all’abitare però, l’unico intervento è stato prosciugare da 300 milioni a zero il fondo per affitti e morosità incolpevole. Ora che il tema è sotto i riflettori, il ministro per le Infrastrutture Salvini, titolare del dossier, ha promesso un grande Piano per la casa. Se e quando lo scriverà, dovrà fare i conti con una realtà imbarazzante per la sua maggioranza: parte consistente delle famiglie in povertà abitativa è composta da stranieri, regolarmente residenti in Italia.