La Stampa, 15 maggio 2023
Biografia di Chiara Francini
estratto di “Forte e Chiara. Un’autobiografia" Rizzoli
Quella che sono lo devo alle botte che ho preso al liceo, e sì, certo, erano botte morali, ma volete venire a dirmi che fanno meno male?
Quella che sono lo devo, soprattutto, alle umiliazioni, alle ingiustizie che mi sono state spalmate in faccia laggiù, dove ho conosciuto l’amicizia, la cooperazione ma, soprattutto, l’odio.
L’odio è un sentimento profondamente sottovalutato. Cattivi maestri sono quelli che, con tanta vaselina, imboccano i poveri fanciulli e le povere fanciulle, raccontando loro che la felicità, la giustizia le si agguantano solo con l’amore. Essi mentono. Sì, con l’amore si fanno certe cose, ma il grosso si fa con l’odio: profondo, viscerale, instancabile. E, a me, quel liceo ha dato la possibilità di approfondire, di scavare nelle guerre puniche tanto quanto in me stessa.
Per esempio, quando l’insegnante di matematica, la professoressa N., alla mia ennesima excusatio non petita che con voce pesta sussurravo alla lavagna: «Mi scusi, mi scusi tanto professoressa», incapace di accontentarla anche solo ripetendo uno stupido postulato – che i postulati non hanno altra funzione se non quella di essere ripetuti a memoria –, mi diceva, calma come il vapore: «Francini, non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa. Per la tua stupidità».
E io ho odiato. Grazie a Dio. Ho odiato me stessa, la mia incapacità nell’abbattere l’ingiustizia di colei che aveva l’autorità per dirmi che ero stupida, ma non doveva avere l’autorevolezza di farmi sentire tale. Non le dovevo permettere di averla. La matematica mi ha sempre fatto schifo. Non esiste nulla di più esatto delle parole, nulla di più scientifico. Ho sempre saputo di non essere la più intelligente della mia classe, ma dovevo, comunque, essere capace, dovevo riuscire a demolire quell’immagine di stupida che si stava insinuando nella mia testa. Dovevo distruggere quella convinzione che faceva capoccella in me. Quella paura.
E come un mantra, per tutto il liceo, ripetevo una frase di mia madre: «Non ti devi mai preoccupare, se non è un male che il prete ne goda». Il prete “gode” quando muore qualcuno, perché col funerale da officiare gli verrà fatta una donazione. Sì, mia madre – sempre usando immagini gioiose – mi stava dicendo qualcosa che mai avrei dimenticato: «Non devi preoccuparti se non è qualcosa che riguarda la salute. Non è così importante. Andrà bene per forza. Sii forte di questo. Sarà, comunque, un successo». Mia madre mi stava consegnando qualcosa che non mi avrebbe mai abbandonato: la speranza nella tragedia. La certezza che il mio odio per la paura, l’odio per ciò che mi faceva male, e che quindi era male, era sacrosanto. E che mi avrebbe salvato. Odiavo l’ingiustizia, la mia paura, il mio essere maltrattata.
L’odio per ciò che è male è il bene supremo. Ma nessuno lo dice mai. E ogni giorno lo ripetevo. Distruggila. Distruggi. Deve morire. Morire.
Nel 157 a.C. Catone, politico, generale e scrittore romano, detto anche Catone il Censore – per via di una morigeratezza e una rigidità simili a quelle di mia madre – dopo una visita a Cartagine, città fenicia vicinissima alle coste siciliane, era rimasto dolorosamente colpito dalla sua prosperità. Si era convinto così, in modo profondo, che l’unica possibilità di vita per la sua Roma fosse la distruzione di Cartagine. E non riuscendo a convincere il Senato romano a dichiararle guerra, un giorno, come riferisce l’abate Lhomond, in De viris illustribus urbis Romae a Romulo ad Augustum, durante una delle sue orazioni, tirò fuori dalla toga un fico, lo mostrò ai senatori tutti e chiese loro: «Quando pensate sia stato raccolto questo bel fico?». I senatori risposero che sembrava freschissimo. «Eppure» disse lui, «sappiate che è stato colto solo tre giorni fa a Cartagine. Ecco quanto siamo vicini al nemico».
Catone a conclusione di ogni suo discorso, qualunque fosse l’argomento proferito, chiosava sempre con la stessa frase: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse» ("Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta").
Carthago delenda est. Nel 146 a.C., con la terza guerra punica, Cartagine venne distrutta. Non sarebbe mai più stata rivale di Roma.
Alla maturità presi il secondo voto più alto della mia classe. Non perché fossi la più intelligente, o quella che avesse studiato di più, ma perché avevo imparato a odiare in modo proficuo. Anni dopo, in maniera incredibile, incontrai la professoressa di matematica di fronte al bar dell’ospedale di mia madre, dal quale stavo uscendo con le gote ancora gonfie di maritozzo. Vedendola mi gettai tra le sue braccia per salutarla, col solito entusiasmo provinciale che non mi ha mai abbandonato.
La professoressa N. era una donna elegante e algida, credo non mi fossi mai avvicinata a lei così tanto, quella fu la prima volta. Ricordo il suo foulard perfetto, intriso di profumo d’agrumi e la gonna di splendida fattura. Lei mi guardò e disse: «Francini, ti saluto con piacere. E scusami se ti ho maltrattato». Io le feci un grande sorriso e l’abbracciai sinceramente. Nel vederla provai solo un grande senso di gratitudine. Io la matematica non l’ho mai imparata, mi ripugna, ma da lei avevo appreso qualcosa di molto più importante: che il prete, con me, avrebbe dovuto aspettare parecchio a godere. —