La Stampa, 15 maggio 2023
Intervista a Giuseppe Conte
«Dovremmo avere il coraggio di dire che questa strategia militare, che ha bandito la strategia negoziale, porta solo morte e distruzione».
Regole d’ingaggio per questa intervista a Giuseppe Conte. Si parla guerra e di Rai. Zelensky, Putin, Fazio e Littizzetto sì. Schlein, economia e riforme, almeno per oggi no. La politica classica è bandita. Una forma di rispetto per il voto amministrativo in corso. Anche se è difficile immaginare qualcosa di più politico del conflitto in Ucraina e della radiotelevisione italiana, estremi velenosi di un dibattito che serve a capire su quali valori, se esistono, si fonda il Belpaese. Lo scontro sul pensiero unico e i presunti colbacchi di viale Mazzini (nemici da spazzare via in nome di un rivoluzionario futuro patriottico) da un lato, l’Occidente a trazione americana e la fascinazione per il putinismo dall’altra. L’egemonia culturale interna di qua, la pressione internazionale di là. Che cosa siamo diventati? Il leader del Movimento 5 Stelle, foto di John Fitzgerald Kennedy sui profili social, un tempo Avvocato del Popolo, adesso orgogliosa bandiera di un pacifismo papalino-ghandiano, lo racconta a La Stampa.
Giuseppe Conte, la via della pace proposta dal Vaticano non piace a Volodymyr Zelensky.
«La mediazione di Papa Francesco può in ogni caso aprire un percorso negoziale costruttivo. Una porta che Europa e Italia devono coraggiosamente tenere aperta».
Non è quello che vogliono tutti?
«Non mi pare. Noto che Giorgia Meloni, con un’espressione che mi ha molto colpito, “scommette” sulla vittoria Ucraina, promettendo illimitate forniture militari. In questo modo però si accetta la possibilità di una carneficina senza fine e di una possibile deflagrazione nucleare».
Secondo Antonio Tajani l’unica strada possibile per il cessate il fuoco è quella che indicherà Kiev.
«È un’impostazione del tutto sbagliata. Ma temo che lo slancio bellicistico serva a nascondere l’incapacità di affrontare emergenze interne come il caro affitti, i mutui alle stelle, l’inflazione fuori controllo, contratti precari e il crollo del potere d’acquisto di famiglie con stipendi sempre più bassi».
Perché l’Ucraina dovrebbe rinunciare a una parte del proprio territorio?
«Nessuno mette in discussione il diritto dell’Ucraina all’integrità territoriale. Questo non significa che non dobbiamo creare le condizioni per sederci a un tavolo».
Europa, Nato e Stati Uniti sono d’accordo a mandare armi in Ucraina, esattamente come Meloni. Voi non più. Avete valori diversi?
«Più semplicemente noi abbiamo il coraggio di dire che questa strategia militare, che ha bandito la strategia negoziale, porta solo morte e distruzione».
Non confonde il pacifismo con l’antiamericanismo?
«Ho sempre chiarito che la nostra collocazione atlantica non è in discussione. Ma con gli alleati ci si confronta. Se prendiamo solo delle indicazioni allora siamo subordinati».
Da presidente del Consiglio avrebbe comunque detto no all’invio delle armi?
«Mi sarei adoperato in tutti i modi per convincere gli alleati europei che se davvero vogliamo proteggere gli ucraini e la nostra sicurezza dobbiamo essere più coraggiosi e coinvolgere tutti nel processo di pace, evitando l’escalation militare russa. E ancora mi domando perché Giorgia Meloni sia rimasta in Italia a discutere di rave party anziché andare in Cina come Scholz, Macron e molti altri leader europei».
Vuole dire che a livello internazionale pesava più lei di Meloni?
«Non voglio fare confronti personali. Ma osservo che oggi l’Italia, sia a Washington sia a Bruxelles, si sta limitando a seguire indicazioni di altri e non incide su nulla: dall’economia alla guerra, dall’immigrazione alla transizione ecologica. Eppure in campagna elettorale la premier diceva che con lei al governo per l’Europa sarebbe finita la pacchia. In verità non tocchiamo palla».
Meloni vuole reintrodurre la leva volontaria in Italia, condivide?
«Per la destra la passione per le armi è come il richiamo della foresta. Io mi concentrerei di più su contratti stabili, retribuzioni, casa e famiglia».
La passione della destra per le armi va di pari passo con quella per la Rai. Ieri Fabio Fazio e Luciano Littizzetto hanno salutato la tv pubblica. Stupito?
«Direi che è uno dei tanti disastri della gestione Fuortes, un manager che non si era mai occupato prima di radiotelevisione. Il risultato si è visto».
Che cosa c’entra Fuortes?
«Mi risulta che il contratto in scadenza di Fazio fosse sul suo tavolo da molti mesi. Non ha mosso un dito».
Salvini ha commentato sarcasticamente: Belli ciao. È come se riservasse a Fazio e Littizzetto un rancore incessante.
«Non voglio sapere se Salvini abbia un problema personale con Fazio e Littizzetto o no, certamente un ministro farebbe meglio a non esprimersi sui singoli per non dare l’impressione che il governo di cui fa parte ricorra alla censura».
Fazio faceva parte dei comunisti col colbacco?
«Chi lo considera così?».
A occhio sia Salvini sia il ministro Sangiuliano.
«Più che un comunista, Fazio mi è sempre sembrato un democristiano che molto astutamente sa come curare il suo mondo di riferimento».
Le piace Giampaolo Rossi?
«Non lo conosco per potere esprimere un giudizio. Non saprei esattamente che cosa dire di lui, se non che mi auguro che faccia un buon lavoro e che assieme agli altri assicuri il pluralismo delle voci e non cancelli trasmissioni come Report che sono l’essenza del servizio pubblico».
La destra di governo sembra ossessionata dall’egemonia culturale della sinistra.
«Devo darle una risposta ipocrita?».
Domanda retorica?
«Domanda retorica. Lo sappiamo tutti che in Rai i riferimenti culturali di sinistra sono da sempre molto forti. Una capacità di far passare la propria visione che si è accompagnata con lo scarso spessore culturale dimostrato dalla destra».
Come se ne esce?
«Intanto cancellando la riforma Renzi. Ha fatto danni inenarrabili, esponendo la tv pubblica a un’influenza ancora maggiore del governo di turno».
Per sostituirla con che cosa?
«Con un nuovo progetto. Lancio un appello alle forze di maggioranza e di opposizione. Avviamo degli Stati Generali della tv per programmare una riforma che possa definire più compiutamente (aggiornandola) la missione del servizio pubblico».
Vasto programma.
«Forse, ma dobbiamo fare in modo che tutte le componenti politiche, culturali e sociali del Paese possano riconoscersi nel nuovo progetto. La Rai va ripensata nella governance e nella struttura, per renderla più competitiva rispetto alle piattaforme televisive che la stanno spingendo fuori dal mercato».
I partiti dentro o fuori?
«Completamente fuori».
Perché la maggioranza dovrebbe dirle di sì?
«Perché la riforma partirebbe dalla prossima legislatura. Questa maggioranza sta facendo semplicemente quello che hanno fatto tutti prima di lei».
Compresi i suoi governi?
«Noi non avevamo professionisti di riferimento ed è per questo che abbiamo scelto un manager esterno, esperto di prodotti televisivi e privo di appartenenze politiche come Salini».
È vero che la Rai di oggi ha venature giallonere?
«Di scemenze ne vengono dette tante. Questa certamente è una delle più clamorose e infondate. Ricordo peraltro che nella tradizionale spartizione tra partiti, il Movimento 5 Stelle è l’unico rimasto fuori col governo Draghi».
Vuole rifarsi?
«Assolutamente no. La nostra più grande ambizione è valorizzare quei dipendenti Rai di grande professionalità che non trovano spazio perché non hanno colore politico».
Alessandro Di Majo, consigliere in quota M5S, oggi in cda voterà con la maggioranza o contro?
«Deciderà lui, in scienza e coscienza. Se fossi io al suo posto sospenderei il giudizio in attesa di capire meglio i nuovi orientamenti».
Li guarda i 5 minuti di Vespa?
«Mai avuto il tempo. E, se non ne fossi stato protagonista, non avrei visto neppure quello a cui ho partecipato».
La Rai sta lasciando a La7 il ruolo che una volta era di Rai3?
«Mi pare che questo rischio non ci sia, almeno fino a quando Rai3 sarà presidiata da Mario Orfeo che difende la sua area politica di riferimento come un pretoriano».
Ha seguito il caso Rovelli, censurato alla fiera del libro di Francoforte per avere attaccato il ministro Crosetto il primo maggio?
«Sì. E ho trovato indegna questa censura preventiva nei suoi confronti. Penso che il commissario Levi dovrebbe dimettersi».
Il governo sostiene di non essere mai intervenuto. Ci crede?
«Non ho informazioni di prima mano».
Presidente, lei come li sceglie i colori dei vestiti?
«Li scelgo da me. E generalmente uso il blu. Senza adattarmi all’interlocutore. Davanti al Papa, per esempio, non andrei vestito di bianco e con Zelensky non mi vestirei di nero».
I colori degli alleati politici, invece?
«Li scelgo sulla base dei progetti concreti che perseguono e degli impegni che mantengono».
Torna di moda il giallorosso?
«Per il momento mi tengo stretto i colori del Movimento 5 Stelle. Per le alleanze c’è ancora tempo». —