La Stampa, 15 maggio 2023
Murgia si sente come il gatto di Schrödinger
Nei giorni scorsi, a seguito della mia intervista sul Corriere della Sera, mi è successa una cosa buffa: sono diventata il gatto di Schrödinger, quello contemporaneamente vivo e morto. Annunciare una malattia e il suo decorso di ormai un anno e mezzo ha fatto scattare una surreale celebrazione funebre in vita a cui onestamente non mi sento ancora di partecipare con lo slancio ammirevole che ho notato in alcuni commentatori. Mi interessa invece che la mia malattia, che erode il mio tempo, non eroda anche il mio senso e quello delle cose che ho fatto negli ultimi mesi, una delle quali è stato scrivere un libro che no, mi dispiace deludere i cacciatori di morbosità, non è sul mio cancro. Non leggo libri sul cancro altrui, meno che mai ne scriverei.
Il cancro in sé è un tema solo se si è oncologi a un congresso specialistico. Il romanzo che ho scritto parla invece di crisi ineluttabili e di come a volte la migliore soluzione per uscirne sia restarci dentro. La madre di tutte le crisi in questi ultimi tre anni è stata la stessa per tutti: la pandemia, ma per la maggior parte delle persone che conosco la pandemia non è mai esistita. Non che non la ricordino, semplicemente non vogliono più sentirne parlare.
Sanno benissimo che il Covid c’è ancora, ma i morti sono finiti e il senso di emergenza è andato via con loro. È un meccanismo di rimozione banale nella sua prevedibilità e a tratti lo invidio, perché gli scrittori e le scrittrici non se lo possono permettere.
Chi lavora con la letteratura nel senso proprio – cioè non con le pur dignitose scritture del conforto – maneggia essenzialmente il rimosso, l’indicibile, il segreto in cuore a ciascuno che non può stare in bocca a nessuno. Chi scrive finisce sempre a smuovere macerie, quello da cui tutti gli altri distolgono prudentemente lo sguardo. La ragione di questa insistenza è pratica: il rimosso non solo non scompare, ma continua a produrre gli effetti del cambiamento, mutando persone e situazioni in modo carsico, con un agire perfido che lo scrittore o la scrittrice, gentaglia pavida che scrive fondamentalmente per paura di perdere il controllo sulla realtà, preferisce nominare che ignorare. Agli altri, quelli che leggono, rimane la possibilità di scegliere quanto di quel cambiamento vogliono ancora vedere e quanto invece preferiscono lasciar accadere senza pensarci più.
Quando mi sono messa a scrivere Tre Ciotole, un romanzo dopo otto anni di altra scrittura, non sapevo di avere in testa questa intenzione, che è disturbante anche per me: anche io vorrei come tutti, se non dimenticare, quantomeno andare oltre. Forse per questo l’ho sottotitolato ottimisticamente «rituali per un anno di crisi» e giuro che volevo davvero scrivere storie che potessero raccontare liturgie d’uscita dal tempo difficile del contagio. Non è andata così.
Quel che è venuto fuori è piuttosto una specie di scatola nera, il testimone tecnologico che nelle auto e sugli aerei registra la sequenza degli eventi e si rivela particolarmente utile per capire come sono andati davvero gli incidenti. Dell’anno che ha visto tutti attraversare lo stesso disastroso evento mondiale, ho finito così per raccontare dodici storie dove altrettanti personaggi vivono enormi, silenziosi e ignorati disastri personali. Ciascuno di loro non ha più di un grado di separazione dall’altro e la pandemia è solo uno sfondo, una nota di basso costante: sono gli acuti delle vicende individuali a rivelare la dissonanza. Uomini razionali sul lavoro e completamente deliranti tra le mura domestiche. Donne che restano lucide solo se parlano con i cartonati dei divi della musica. Ragazzine che per restare amiche si tagliano le braccia e ricamano gli sbreghi della pelle con fiori disegnati a penna. Persone malate che cambiano nome alle loro patologie per poterle curare senza far loro la guerra. Ragazzi che ammazzano animali senza altro scopo che dimostrare di poter sopravvivere alla propria stessa violenza. Sorelle che seppelliscono sorelle amate con l’indicibile sollievo che siano morte davvero. Uomini che lasciano donne che non hanno mai capito, donne che vomitano per mesi pensando a uomini che avevano invece capito benissimo. Amici che insieme devono riprendersi una città divorata dai troppi ricordi brutti. Donne e uomini di servizio (domestico o militare, qual è la differenza?) che devono mentirsi sulla realtà per poterla abitare senza tradire la cornice che li legittima.
Molte storie in apparenza diverse, ma in realtà legate a un’unica grande domanda: come cambiano le risposte personali e il concetto di normalità, quando niente intorno è più normale e non c’è modo di superare il cambiamento con le sole forze individuali? Cosa accade nella mente di chi deve abitare il disastro finché dura, senza la possibilità di uscirne? Non è una domanda che riguarda specificamente la pandemia: una crisi che dura un anno capita prima o poi nella vita di tutti, ma solo poche volte ha la cortesia di presentarsi nei modi più riconoscibili, come un lutto, una malattia, un divorzio o un licenziamento drammatico. In alcuni di questi casi la pandemia, almeno finché l’abbiamo considerata presente, è stata un formidabile mostro informe a cui dare la colpa dei disagi più dichiarabili, anche con ottime ragioni. Il disagio mentale? Colpa della pandemia. I licenziamenti? Colpa della crisi post pandemia. Le separazioni? È la pandemia, bellezza, che ha cambiato il nostro modo di stare insieme. Peccato che la maggior parte delle volte la crisi personale appaia in forme che solo chi le vive conosce e lì non c’è Covid a cui poter dare la responsabilità: il disastro, se vuoi considerarlo tale, è tutto tuo. Questo è catastrofico dal punto di vista personale, ma da quello letterario è fenomenale, perché è proprio quell’impossibilità di socializzazione del cambiamento a rivelarsi più interessante, se si decide di guardarla da vicino.
Non c’è niente di più divertente, per chi scrive, che usare la penna come una lente d’ingrandimento per mettere a fuoco, anche nel senso di infuocare, un pezzo di realtà umana che cerca disperatamente di nascondersi anche a se stessa. Tre Ciotole, scatola nera del tempo della crisi, racconta una cosa disarmante quanto vera: a volte, nel bel mezzo di un problema gigantesco che non controlli, il solo modo per non perdere la testa è creare un problema ulteriore, che però controlli. Il risultato è ossessivo, non etico, sparigliante e porta a pensare che avremmo avuto vite migliori se fossimo stati una specie vivente meno complessa, più facile. Ma saremmo stati anche molto meno divertenti e nella crisi non c’è nulla che alla fine salvi più di una risata su se stessi. —