il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2023
La lunga vita dei paradisi fiscali
Il materiale certo non manca: “Il nostro lavoro può essere utilizzato per valutare l’effetto degli sforzi politici volti a ridurre il trasferimento degli utili”. A scriverlo è Gabriel Zucman, economista francese, che insieme a due ricercatori danesi, Thomas Tørsløv e Ludvig Wier, pubblicava già diversi anni fa con questa esortazione l’ultimo aggiornamento delle sue ricerche sui paradisi fiscali. The missing profit of the nations è infatti una sorta di Bibbia del calcolo dell’elusione fiscale, stimava quanto i vari paesi perdano in termini di entrate tributarie quando le multinazionali trasferiscono i propri profitti nei paradisi fiscali e mostra un quadro drammatico che è da anni invariato e ancora lontano dall’essere davvero migliorato.
Se si guarda al 2015, infatti, la base imponibile che emigra ogni anno è pari ad almeno 600 miliardi di dollari: il 36% dei profitti delle multinazionali realizzati “fuori” (tutti quelli, ad esempio, di Apple in Francia, Germania, Irlanda, ma non negli Stati Uniti, dove si trova la sede principale) viene trasferito in paradisi fiscali. L’aggiornamento sui dati del 2019 non mostra grossi miglioramenti. Le ultime stime di Zucman e Wier parlano di 969 miliardi di dollari di utili trasferiti ai paradisi fiscali a livello globale: il 37% dei profitti delle multinazionali. Insomma, aumentano i guadagni e con essi anche la percentuale dei trasferimenti. “Il dato è sorprendente, dal momento che il 2019 è stato il terzo anno di attuazione del Beps (un progetto Ocse per contrastare appunto l’erosione della base imponibile, ndr) – spiegano – e i risultati suggeriscono che l’iniziativa non è stata sufficiente a portare a una riduzione del trasferimento degli utili”.
Entrando nel dettaglio, le multinazionali e americane guidano sempre la classifica: spostano più della metà dei loro profitti e ciononostante (dati 2015) la perdita che ne deriva in termine di tassazione degli utili è di circa il 10%, la metà di quanto avviene per in Ue dove invece si aggira attorno al 20%. In termini di Pil si tratta dell’1,5% per l’Ue contro lo 0,8% degli Stati Uniti, in un contesto che è già di per sé molto favorevole: tra il 1985 e il 2018, l’aliquota media globale dell’imposta sulle società si è infatti dimezzata passando dal 49% al 24% portandosi dietro un “eccesso di redditività”. Appare “semplice ma sorprendente”, dicono i ricercatori, che nei paradisi fiscali le imprese straniere siano enormemente più redditizie delle imprese locali. Il rapporto tra utili al lordo delle imposte e salari è di circa il 30-40% per le imprese locali, più ampio per le imprese estere. “Le imprese straniere in Irlanda hanno un rapporto profitti/salari dell’800%” si legge. Significa che per un dollaro di salario di un dipendente, le multinazionali straniere ne contabilizzano 8 di utili ante imposte. Nel 2019 quella percentuale scende al 500% ma sale al 650% per il Lussemburgo).
Zucman&C. identificano 41 paradisi fiscali per profitti che riguardano per lo più proprietà intellettuale, amministrazione, pubblicità, Itc e servizi finanziari e assicurativi. L’esempio più semplice per descrivere ciò che accade è questo: una società statunitense con un’affiliata alle Bermuda possiede un’affiliata in Francia che vende servizi digitali a clienti francesi. L’affiliata francese paga le royalties alle Bermuda per proprietà intellettuale sottraendo guadagni alla Francia. Secondo le stime, ad esempio, nel 2015, sono stati spostati fuori dagli Usa 3,5 miliardi di dollari riconducibili a 127 multinazionali tecnologiche non-Usa.
Altri schemi sono variazioni sul tema, come nel caso dell’Ue che solo apparentemente indirizza i profitti verso i paradisi interni ai suoi confini. Circa la metà di quelli che “girovagano” sul territorio arriva alla fine in paradisi fiscali extra-Ue. “I grandi profitti vanno prima verso paradisi europei come il Lussemburgo e Paesi Bassi, poi verso centri offshore non Ue”. I trattati europei vietano infatti agli Stati membri di tassare i pagamenti (come interessi o royalty infragruppo) interni. “La Germania – spiegano gli economisti – può imporre tasse sui pagamenti alle Bermuda (una classica strategia antievasione), ma non al Lussemburgo. Trasferendo i profitti prima in Lussemburgo e poi alle Bermuda, la multinazionale può dunque eludere le norme tedesche”. Le società risparmiano, i paradisi fiscali guadagnano.
Urge, quindi, una tassa minima comune (sui cui limiti leggete a destra) ma anche maggiore trasparenza. Un recente paper dell’osservatorio fiscale europeo EuTax (Tax Avoidance and the Complexity of Multinational Enterprises) spiega come le società che fanno parte di gruppi più complessi riportino profitti inferiori rispetto ad affiliate simili nello stesso paese e settore “confermando che la complessità facilita lo spostamento dei profitti tra affiliati”. Un altro paper (Tax Transparency by Multinationals. Trends in Country-by-Country Reports Public Disclosure) rileva però che ad oggi poche multinazionali pubblicano i propri CbCR (i Country by Country report dell’Ocse che contengono informazioni di dettaglio) e che, seppur in aumento, sono dispersivi e a volte poco esaustivi. La direttiva Ue sulla trasparenza (la 2021/2101) prevede – almeno per le aziende che operano in Europa – la loro pubblicazione dal 2024 in formato leggibile, “tuttavia – spiega il paper – vi saranno ancora alcuni ostacoli al pieno miglioramento della trasparenza fiscale”: la disaggregazione geografica è troppo “limitata” e manca un sistema di centralizzazione delle informazioni.