il Giornale, 15 maggio 2023
Professione: forager (cacciatrice di erbe selvatiche)
Tu chiamale, se vuoi, erbacce. Ma volendo c’è un inglesismo: foraging, ovvero foraggiarsi, procurarsi il cibo come si faceva millenni e millenni fa, e come si è andati avanti a fare per secoli, battendo sentieri e boschi e aguzzando la vista alla ricerca di erbe, radici e piante, selvatiche ma buone. Vegetali che, spesso, non sono semplicemente commestibili, bensì hanno proprietà e qualità eccezionali, quasi miracolose, gastronomiche e persino curative... Questo è il mondo di Valeria Margherita Mosca, giovane e attivissima forager, studiosa, chef, guida escursionistica ambientale e fondatrice del Wood*ing wild food lab, un laboratorio di ricerca e sperimentazione sul cibo selvatico: perché, per occuparsi del regno delle erbe, che racconta nel suo Alla ricerca della natura selvatica. Guida pratica al foraging conservativo (pubblicato da Fabbri Editori con una prefazione di Jane Goodall, la donna più famosa della storia dell’etologia, e con moltissime illustrazioni per orientarsi nella raccolta), bisogna impegnarsi su più fronti, dalla scienza alla cultura, dalla botanica anzi dall’etnobotanica (in cui Mosca si è specializzata all’università) alla cucina, dalla conservazione della fauna (per «una visione dell’habitat a 360 gradi» dice) alle tradizioni delle nonne... Valeria Margherita Mosca, che cos’è il «foraging conservativo» della sua Guida? «È stato teorizzato da qualche anno, da quando il foraging è tornato di moda. È una attitudine che l’uomo possiede da sempre, ma ci si è concentrati soprattutto sugli aspetti modaioli, mentre sono stati trascurati quelli ambientali. Il foraging è considerato qualcosa di tradizionale e si promuove così: non è sbagliato, ma il concetto di raccolta deve essere assolutamente mutevole, perché la biodiversità stessa cambia continuamente». E qual è la conseguenza? «Raccogliere le stesse piante e radici che si raccoglievano in passato può generare dei grossi problemi. È per questo che è nato il foraging conservativo, che studia le piante invasive esogene, aliene, che infestano il nostro habitat al punto, in certi casi, da far scomparire le specie autoctone. Alcune di queste piante sono state introdotte dall’uomo e sono sfuggite alle colture dopo l’importazione, oppure sono state utilizzate come piante ornamentali negli anni Ottanta, perché belle e resistenti, e poi hanno trovato una diffusione ideale del seme». Che piante sono? «Alcune sono mostri, finite nella lista nera, come la Reynoutria japonica, o poligono del Giappone, che ha ormai vinto la competizione nei confronti delle piante autoctone: cresce velocissima, ruba nutrimento e dal rizoma emette dei pesticidi che uccidono le altre piante. E così ci si è chiesti: perché non concentrarsi su questo genere di piante?». È fattibile? «La buona notizia è che molte si possono mangiare. Così abbiamo dato vita a una database di queste piante esogene aliene e dannose, che possono essere usate come cibo, in un’ottica di sostenibilità e di cooperazione con l’ambiente». Che cosa fa nel suo laboratorio? «È un laboratorio di ricerca scientifica, nato dodici anni fa per esplorare e analizzare l’uso del cibo selvatico per l’alimentazione umana, privilegiando, appunto, l’ottica conservativa. L’idea è di creare il primo catalogo, dal punto di vista chimico nutrizionale, del cibo selvatico, che può essere una risorsa enorme per un terzo del pianeta. Poi facciamo divulgazione e formazione». Cucinate? «A scopo divulgativo. Facciamo anche libri di ricette. E viaggi, perché l’esplorazione nel mondo naturale è una grossa parte del nostro lavoro, ed è fondamentale». Dove è stata? «In Italia, in California, in Danimarca e in luoghi esotici. Sono appena tornata dalle Svalbard e dal territorio dei Sami – sono in parte Sami – per una docuserie sul cibo, andrò in Oman, nelle Azzorre, in Guatemala... Ma una delle ricerche che più mi hanno colpito l’abbiamo fatta in Italia, sulle Alpi: ci siamo occupati della catalogazione dei licheni, un lavoro enorme. È un mondo misterioso e affascinante: contengono proteine, vitamine e minerali e, fra quelli sulle Alpi, tutti sono commestibili, tranne due che sono tossici. Insomma sono perfetti». I licheni sono l’alimento perfetto? «Sì. Quelli edibili però vanno prima trattati per togliere l’acido lichenico, immergendoli in bagni di acqua e bicarbonato; poi si fanno essiccare e si conservano. Una volta reidratati si possono preparare fritti, bolliti per gelatine e aspic, nelle zuppe, o frullati come farina nel pane. Sono molto utili in cucina». Qualche sorpresa? «Tante. Mi ha stupito scoprire i principi nutrizionali e il contenuto di vitamine di molti cibi selvatici. Su tutti, l’abete rosso, uno dei miei preferiti: ha otto volte il contenuto di vitamina C rispetto a un limone coltivato. Ed è sbalorditivo dal punto di vista organolettico perché ha tre toni: uno balsamico, per via della resina, uno citrico, dovuto alla vitamina C, e uno piacevolmente amaro, per via dei tannini». Il gusto? «Eccezionale. Quasi ogni sua parte è commestibile: la foglia coriacea può essere usata al posto del rosmarino per aromatizzare; la corteccia interna, da pianta abbattuta, può servire da farina di sussistenza per panificare; la resina, pulita, per aromatizzare; le gemme primaverili, tenere, come verdure, cotte o crude, ricchissime di vitamina C e buonissime». Per gola che piante selvatiche sceglierebbe? «L’abete rosso, e poi alcuni fiori, come quello della cosiddetta acacia, una pianta invasiva che, a inizio primavera, ha grappoli bianchi profumatissimi. Ma attenzione, vanno colti solo i fiori ben aperti, perché i boccioli sono tossici». E come si mangiano? «O crudi in insalata, o fritti in pastella, poi zuccherata o salata, oppure imbevuti nella gomma arabica per farne delle caramelline... E poi c’è il poligono del Giappone, i cui getti primaverili sono come asparagi giganti, rossastri: dopo averli messi a bagno nell’acqua gelata si possono usare proprio come asparagi, oppure per le confetture, al posto del rabarbaro. E, siccome sono cavi all’interno, possono anche essere dei cannelloni vegetali, molto buoni». Le piante sono anche curative? «Quasi tutte hanno delle proprietà in questo senso. Quelle che preferisco, fra le invasive, sono il tarassaco, fortemente depurativo, tanto che le persone anziane ne mangiavano le foglie, perché purga il sangue e la piantaggine, che è ricca di vitamina K ed è un coagulante potente: se ti tagli e applichi una foglia incisa, smetti di sanguinare. E, anche se non si mangia, mi piace l’iperico, detto anche scacciadiavoli, usato da sempre come cura per la depressione e per la pelle». Una pianta curiosa è l’«amaranto comune». «Appartiene alla famiglia della quinoa, produce moltissimi semini ed è superinfestante: può essere consumata come cereale ed è ricchissima di proteine. È considerata più dal punto di vista nutrizionale che curativo, ma ha proprietà antiossidanti e antinfiammatorie ed è in grado di abbassare il livello di colesterolo cattivo». Dove si trova? «È un’erbaccia, che cresce anche ai bordi delle strade, in habitat assolati. Tra i fiori poi, quello del sambuco è usato da sempre per trattare il raffreddore, la febbre e i problemi alle vie respiratorie, e per le sue proprietà diuretiche, emollienti, rinfrescanti ed espettoranti. Però bisogna raccogliere solo quelli totalmente fioriti, perché i boccioli sono tossici». Altri fiori golosi? «Le Bellis perennis, le margheritine: fiori e foglie si possono mangiare crudi in insalata, cotti nelle zuppe, saltati in padella o sotto sale, o sotto aceto, come capperi più dolci». Ha assaggiato tutto? «Tutto, certo». Qualcosa di disgustoso? «Siamo esploratori, i fallimenti sono tantissimi. Certe piante, anche se commestibili, sono tremende: come alcuni muschi, amari e acidissimi, con una pessima consistenza; o le foglie dell’albero del paradiso, da sempre cucinate durante le carestie, ma dal sapore terribile». Quelle insidiose? «In quanto tossico, il mughetto. Il problema è che condivide l’habitat con l’aglio orsino e, quando non sono fioriti, le foglie possono essere confuse facilmente, e sono molto vicine: ma, se mangi la foglia del mughetto, muori. Anche l’abete rosso ha un sosia tossicissimo, il tasso della morte. Bisogna raccogliere solo piante che si riconoscono perfettamente». La sua pianta selvatica preferita? «L’abete rosso, il mio amore». La più utile? «Troppe. Tra le mie preferite c’è l’achillea millefoglie che, fra le erbe magiche, è un toccasana, che cura anche l’apparato riproduttivo femminile. E la betulla, di cui si usano linfa, corteccia e foglie ed è simbolica, anche nella tradizione Sami, dell’universo femminile. Una pianta gentile».