il Giornale, 15 maggio 2023
Ritratto al veleno di Stéphane Lissner
Solo Italia e Francia sanno disprezzarsi così amorevolmente. Noi, che alla Francia abbiamo dato un pezzo del Louvre, la commedia dell’arte e il primo direttore d’orchestra della loro storia (Giovanni Battista Lulli, prontamente francesizzato Lully), al massimo invidiamo qualche fromage. E i Francesi, che hanno sempre trattato l’Italia come la terra del melodramma, ammettono che qui è un posto bellissimo per vivere, a patto che les italiens non si occupino di politica. Ora, fra melodramma e politica, il protagonista della nuova querelle inter-alpina è un francese che in Italia ha trovato così tanta fortuna da disprezzarla e in Francia così tanto prestigio da crederci. Si chiama Stéphane Lissner, con l’accento sul ciuffo grisonnant, parigino del XII arrondissement, famiglia ebrea ungherese, collège Stanislas e liceo Henri IV, direttore di teatro da quando aveva vent’anni e creò a Parigi il Théâtre mécanique, una carriera sempre sotto le luci della ribalta, dalla Scala di Milano all’Opéra de Paris andata senza ritorno con approdo finale, cioè oggi, al Teatro San Carlo di Napoli. E adesso che di anni ne ha 70 compiuti – improvvisamente s’è messo in testa di recitare. La parte della vittima. Applausi: «Belle interprétation, Stéphane!». Il governo italiano con raro tempismo, c’è da dire – ha varato un decreto che fissa a 70 anni l’età pensionabile per i direttori delle fondazioni lirico-sinfoniche: per la sinistra è un’improvvisa norma ad personam così da liberare un’utile poltrona di scambio (la solita democrazia sotto attacco...). Lissner, erre moscia e cazzo duro, con la solita spocchia francese ha annunciato barricate e ricorsi per difendere il suo posto al San Carlo. E il quotidiano Le Monde tout le monde est pays con la nota prosopopea ha scritto: «La cosa non è destinata ad agevolare le relazioni tra Italia e Francia». Va in scena Pagliacci. Poi c’è la realtà. Il direttore Lissner piagnucola contro il governo italiano, ma in Francia, dove il limite d’età è 65 anni, sarebbe già a casa in pantofole et calotte. Col risultato che alla fine, mentre il suo Paese è incendiato dalle proteste contro la riforma Macron, Stéphane Lissner è l’unico francese del pianeta che non vuole andare in pensione. Per dirla con tutta l’eleganza della sua lingua, «El g’ha la facia come el cu» («cu» si legge come la «u» francese di «plus», ndr). L’ambizione senile di durare in eterno. Ambizioso, abile, attento ai soldi (molto attento ai soldi), fascinoso con le donne (ha tre-quattro famiglie alle spalle: come dice Riccardo Muti, «ogni volta che si deve concludere qualcosa con Lissner, lui si sposa»), arrivista – nell’ambiente teatrale francese c’è chi lo definisce un requin, uno squalo -, simpatico come non sanno esserlo i francesi, snob come possono esserlo solo i parigini, Monsieur Lissner è un grande mestatore di situazioni, ottimo organizzatore, direttore artistico così così, imbattibile conoscitore di ristoranti («Le Dôme, Le Dôme, absolument!!») ma poco esperto di musica. È passato alla storia della televisione francese quando, febbraio 2015, ospite della trasmissione Qui êtes-vous?, Lissner fu sfidato dalla presentatrice a riconoscere alcune arie di opere celebri. E fece scena muta. Ma forse è perché tre delle cinque opere erano del repertorio italiano, che lui odia. Come sbottò tempo fa a una cena milanese fra intimi: «Puccini fra vent’anni sarà completamente dimenticato». Solo i francesi sanno accettare con così tanta classe il successo degli italiani. Francese di grandissimo successo in Italia, une carrière brillante, Stéphane Lissner ha il suo inaspettato trionfo nel 2005 quando sindaco Gabriele Albertini, tempi bui per La Scala, orfana di Muti e devastata da licenziamenti, scioperi, lotte interne – Bruno Ermolli, plenipotenziario di Berlusconi, lo sceglie (fra le risate dei francesi) come sovrintendente del teatro, primo non italiano a rivestire l’incarico nella storia del Piermarini. Roi malgré lui. Comunque il semisconosciuto francese porta a casa di rincorsa la sua prima Prima, affidando l’Idomeneo di Mozart a Daniel Harding, si fa rinnovare il contratto, fra i più alti della storia dei teatri in Europa (500mila euro all’anno, superbonus di 300mila, berlina con autista, spese di rappresentanza inquantificabili e affitto pagato dell’appartamento in piazza del Carmine perché, detto in francese, Milan, l’è semper un gran Milan), e poi, gli va riconosciuto, fa il suo lavoro: scommette su giovani direttori d’orchestra, punta sul repertorio internazionale (Wagner, Strauss, Berg, Janacek, Britten, Mozart), schifa un po’ gli italiani, sceglie bene i registi (Patrice Chéreau, Robert Carsen) e chiama come direttore musicale l’ebreo dai cinque passaporti Daniel Barenboim (Barenbùam, come pronuncia Lissner, o Baren-bim-bum-bam, come lo chiamano gli scaligeri). Arrampicando le scale giuste e battendo i salotti buoni, le directeur Lissner – Abbadiano purissimo, très snob, vacanze sullo yacht del banchiere Antoine Bernheim, cuore a sinistra e portafoglio nei trust svizzeri – conquistò immediatamente la Milano che conta: cioè la redazione dei giornaloni-oni-oni. Fece della favorita Natalia Aspesi la sua Simone de Beauvoir e del Corriere della sera il suo fedelissimo ridotto. Mangiatore formidabile e bevitore di enormi scorte di Bellavista (sponsor della Scala), con la sua inflessione da doppiatore dell’ispettore Clouseau, mise in scena la sua personale Cavalleria Rusticana quando, fra melodramma e politica, si scontrò con il princeps della critica musicale, Paolo Isotta, l’unico eretico di una grande destra dentro la piccola chiesa di sinistra di via Solferino. Nel 2013 Lissner negò l’accredito a Isotta, «persona non gradita» come notificò al gesuita De Bortoli, che finse di difendere Isotta invocando la libertà di stampa. E il critico napoletano, sine ira ac studio, si vendicò definendolo «Il peggiore sovrintendente di tutta la storia della Scala. Un disperato senza arte né parte». Messa l’arte da parte e l’ambizione davanti a tutto, Lissner con il senso del dovere proprio dei francesi – appena ebbe l’occasione di trasferirsi all’Opéra di Parigi mollò tutto e scappò nel Marais, lasciando alla Scala uno scenografico buco di bilancio e portandosi via, come bottino italiano, liquidazione, buonuscita e una nuova moglie, Valentina Da Rold (razziata a Piero Maranghi, proprietario di Sky Classica) che poi mollò per un’altra, una delle tante ex signore Lissner. Après moi le diluge. E infatti c’era un sole splendido il giorno che, locupletatissimo, Lissner lasciò Milano. Poi visse la propria grandeur, di cui non rimane traccia, all’Operà di Parigi e infine, pensionato in Francia, ha ritrovato lavoro in Italia. Succede. Dal 2019, voluto da Dario Franceschini, è il Sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli. Lì, complice la pandemia e antiche ruggini scaligere, ha tagliato tre direzioni di Riccardo Muti, prende il sole al circolo canottieri – le malelingue, cui noi non crediamo, dicono che lavori solo il martedì adora le napoletane e i sartù di riso e si è reso antipatico come solo i francesi sanno farlo in modo bipartisan. Ora il governo lo sta per mandare via e Vincenzo De Luca parole sue – non vede l’ora di prenderlo a pedate. «Un bel dì vedremo». Come che sia, in Italia lascerà un vuoto assolutamente colmabile. Per il resto, Melomane che c’è Lissner (è un calambour...).