il Giornale, 15 maggio 2023
Chi è Kemal Kilicdaroglu, lo sfidante di Erdogan
Recep Tayyip Erdogan lo ha definito (per disperazione?) terrorista, ma lui il «Gandhi» del Bosforo non ha perso la sua flemma. Un misto di consapevolezza e determinazione che fa parte del suo dna, sia politico che personale. Kemal Kilicdaroglu è questo, un politico per così dire atipico nell’era della sovraesposizione sui social e delle promesse/minacce. Non ha mai detto ad esempio, come il suo sfidante, di voler fare una crociata contro le minoranze, o contro chi ha oggi il potere, o contro Twitter e Youtube. Non ha distribuito soldi in contanti ai bambini nei pressi dei seggi elettorali. Bensì il capo del Partito Popolare Repubblicano ha pronunciato una frase tanto semplice quanto densa di significato, almeno a queste latitudini, con cui ha scalato le classifiche di gradimento nel paese: «Porteremo la democrazia in Turchia». Il 74enne che sta sfidando nelle urne colui che detiene lo scettro del potere da 20 anni poteva non essere candidato. Ha vinto il «ballottaggio» con il ben più giovane Ekrem Imamoglu, quel primo cittadino di Istanbul con un forte ascendente sui più giovani e sulle donne. Tramite una faticosa, ma utilissima, tela diplomatica l’ha spuntata lo scorso 6 marzo, quando il tavolo delle opposizione era pronto a saltare: la pacatezza di Kemal è stata collante ideale per un leader, da un lato impauriti dalla foga del sultano, che una settimana fa ha fatto arrestare altri cinque giornalisti e, dall’altro, con il rischio di non essere completamente lucidi nelle decisioni. Questo per dire che contrappone la tattica alla forza: lo ha dimostrato in occasione di un grave episodio contro la libertà di stampa. Nel 2017 un tribunale turco condannò a 25 anni di carcere per spionaggio il giornalista e parlamentare del Partito Popolare Repubblicano Enis Berberoglu. Le sue veline al quotidiano Cumhuriyet, sostenne l’accusa, erano valse un’inchiesta contro il governo. Fu la prima volta che venne colpito un membro del CHP da quando l’immunità parlamentare era stata cassata. Kilicdaroglu non si scompose e convocò un’imponente marcia pacifica di 450 chilometri da Ankara ad Istanbul, chiedendo «un sistema giudiziario in cui la legge non venga utilizzata come strumento di oppressione». Ancora issando il concetto di democrazia a clava politica. Un’iniziativa che somigliava alla nota marcia del sale del 1930, quando Gandhi e i suoi seguaci percorsero 240 miglia per protestare contro il monopolio coloniale britannico sulla produzione e vendita di sale. Da allora lo soprannominarono il «Gandhi» del Bosforo, oltre che per il suo aspetto umile, esile e occhialuto. Il suo partito, il CHP, è il partito politico più antico della Turchia, nato per volontà di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della moderna nazione turca più volte invocato da Erdogan nei suoi discorsi, ma da cui l’attuale presidente si è, nei fatti, discostato come dimostra il numero esorbitante dei prigionieri politici attualmente detenuti, più di 300mila. Kilicdaroglu, nato a Tunceli da una famiglia che seguiva la minoranza alevita, ha condotto un’esistenza ministeriale, proprio in uno dei settori più sofferenti del paese: finanze e stato sociale. Per molti anni ha diretto l’Agenzia di previdenza sociale turca ed è entrato in politica solo dopo il pensionamento, passaggio che è stato apprezzato da molti di quei cittadini che oggi sentono sul collo il fiato dell’inflazione e delle faraoniche spese effettuate da Erdogan. Il pensiero corre all’Air Force One, al palazzo presidenziale da 1.125 stanze, costato poco meno di 700 milioni di euro, alla residenza estiva da 300 stanze, al nuovo caccia drone Kizilelma, passando per la portaerei TCG Anadolu, costata un miliardo, mentre l’inflazione nel 2022 ha polverizzato ogni dato da 25 anni ad oggi.