il Giornale, 14 maggio 2023
Italo Calvino in tutte le lingue del mondo
Tradurre è un po’ tradire recita una logora paronomasia, figura retorica peraltro adorata dall’Oulipo – l’Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero l’«Officina di letteratura potenziale» fondata nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais – cui aderì anche Italo Calvino (1923-85). Il quale (infatti) così confessa in una lettera privata del 1963: «Per me, che i miei libri siano tradotti è un grande dolore. So bene che tutte le traduzioni sono cattive. So che per il mondo circolano col mio nome libri che non hanno niente a che fare con quello che ho scritto. Purtroppo uno scrittore non può fare niente per impedire che gli editori lo facciano tradurre». Aggiungendo: «L’unica cosa che posso fare è preoccuparmi perché il tradimento del mio stile e del mio pensiero sia contenuto in certi limiti». E in che modo Calvino gestì la pubblicazione e la traduzione dei propri libri in Francia, Paese dove visse con l’amata moglie Chichita dal 1967 al 1980 (la stagione del Maggio francese e di Sartre, di Queneau e di Perec, di Barthes e dello strutturalismo...), lo spiega bene Fabio Gambaro nel suo nuovo Lo scoiattolo sulla Senna (Feltrinelli), un saggio ricchissimo che ripercorre, in dieci tappe geografiche, «L’avventura di Calvino a Parigi» (è il sottotitolo) fra la sua casa in Square de Châtillon, ben frequentata da scrittori e giornalisti, i pomeriggi al cinema (adorava i film degli anni Venti e Trenta, ma anche quelli horror e fantastici), i caffè «engagés» del Quartiere Latino, le brasserie (al Balzar!), le riunioni dell’Oulipo e, appunto, i suoi rapporti con l’editoria francese. Calvino avrebbe voluto pubblicare con Gallimard, cosa che però accadde solo dopo la morte: «Questi fottuti di Gallimard, tutti amici nostri, in tanti anni non m’hanno mai degnato d’uno sguardo», confida in una lettera all’amico Michele Rago. Il suo primo libro uscito in terra di Francia fu nel ’55 con l’editore Albin Michel: Le vicomte pourfendu (Il visconte dimezzato). Poi nel ’60 passò alle prestigiose Éditions du Seuil (da Il barone rampante in avanti), cosa che fece decollare la sua fortuna letteraria, sia francese (Calvino è stato l’autore italiano più amato sulla Senna, più di Sciascia, più di Moravia o la Morante, e dopo persino più di Umberto Eco) sia internazionale. Già, internazionale. Italo Calvino, in vita e poi in morte, è stato letto, e lo è ancora, in tutte le lingue del mondo: 55 – inglese, giapponese, russo, tedesco, norvegese, finlandese, portoghese, svedese, israeliano, serbo, spagnolo... – in oltre 67 Paesi; la sua scrittura è traslitterata in alfabeti diversi, dal cirillico all’arabo, all’ebraico, al coreano, al giapponese, al cinese, al birmano, e i suoi libri conosciuti in ogni continente, «qui e altrove». La prova stampata di tutto ciò è la mostra Calvino qui e altrove che apre domani a Milano, al «Laboratorio Formentini per l’editoria» (fino al 30 giugno), in occasione del centenario della nascita dello scrittore ligure-cubano. Realizzata da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, in collaborazione col «Laboratorio Calvino», e curata in tandem da Andrea Palermitano e Francesca Rubini, è un sentiero incrociato fra la diffusione internazionale delle opere di Calvino e le dinamiche editoriali che lo hanno reso uno scrittore universale. Disse: «La mia scrivania è un po’ come un’isola: potrebbe essere qui come in un altro Paese». Infatti. Italiano nato a Santiago de las Vegas a Cuba, Sanremo nel cuore, studi a Torino e Firenze, una vita a Roma con dependance a Parigi, conferenze in giro per l’Europa e gli Stati Uniti e una casa di vacanza a Castiglione della Pescaia, Italo Calvino in fondo fu un eremita ovunque. Ma con i piedi ben piantati nei suoi romanzi. Amatissimi ovunque, come si può vedere qui. La mostra è divisa in due parti. Nella prima un’infilata di pannelli aiuta a mappare la circolazione dell’opera calviniana nel mondo, tenendo conto che la biblioteca personale dello scrittore conta 1200 libri tradotti e che lui – particolare interessante – divideva per titoli e non per Paesi, quindi in uno scaffale allineava Si una noche de invierno un viajerio, Ako Jedne zimske noci neki putnik, Jos talviyönä matkamies, Se um viajante numa noite de inverno... e in un altro Le villes invisibles, Invisible Cities, Las ciudades invisibles, Niewidzialne miasta, Die unsichtbaren Städerna, Usynlige byer, As cidades invisíveis, Nematomi miestai e ideogrammi vari... È un percorso che grazie alla riproduzione delle varie copertine e alle prime frasi dei suoi romanzi più celebri («In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti», «Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda») spiega l’importanza che Calvino tributava agli incipit (e ogni traduzione è un nuovo inizio) e suggerisce l’idea, con un confronto in absentia, che l’editoria italiana degli anni ’60-’70 a livello grafico fu tra le migliori del mondo in assoluto. Nella seconda parte invece le bacheche proteggono una sessantina di «pezzi» preziosi: una scelta selezionatissima di prime edizioni originali, divise per aree geografico-linguistiche (anglofona, tedesca, francese, ispano-americana e giapponese), affiancate da un gruppo di lettere scambiate tra l’autore e il suo agente letterario Erich Linder tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’80. E qui si apre una finestra sul mondo dell’editoria culturale del ’900 che permette di osservare in diretta le dinamiche che legano autori, agenti e editori stranieri, e mostra come Calvino seguisse con grande attenzione le sorti delle sue traduzioni in giro per il mondo, tentando di colmare la distanza fra la sua parola letteraria e la reinvenzione in un’altra lingua, con un dialogo costante con i suoi traduttori, ossia gli «autori» delle sue opere apocrife... Esempi. Ecco qui l’edizione inglese del Barone rampante, Baron in the Trees, 1959, con la copertina di Domenico Gnoli; ecco una lettera del ’69 in cui Calvino parla con Linder della richiesta di inserire il suo racconto Ultimo viene il corvo in un’antologia americana («Ci sono state due traduzioni del racconto, diverse anche nel titolo: una con Raven e l’altra con Crow... Io tutto quello che posso dirti è che preferisco raven a crow per fedeltà a E.A. Poe, ma come sbrogliarmi tra tanti editori per un racconto di quattro paginette, proprio non so...»; ed ecco la lettera in cui manifesta dubbi su una introduzione proposta da un editore della Germania dell’Est per Le città invisibili: un po’ troppo ideologica per Calvino...